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L'INNOCENZA COME FEDELTA' ALLE ORIGINI Una lettura della "Malora" di Anna Maria Alessandria

Una lettura della "Malora" di Anna Maria Alessandria

Beppe Fenoglio con il romanzo breve "La malora", ispirato ad una vicenda di fatica e di miseria di una famiglia contadina, linguisticamente saturo di costrutti, di termini e di espressioni dialettali e ambientato in uno spazio geografico dai confini angusti, tra San Benedetto e Alba, si è distanziato certo di proposito e programmaticamente dal modello del racconto regionale di carattere naturalistico per costruire una grande metafora esistenziale.
Nelle prime pagine del racconto l'autore propone al lettore due indizi molto significativi che delineano la personalità e il mondo interiore del protagonista-narratore. Agostino, dopo la sepoltura del padre, deve ritornare al Pavaglione. "Dall'alto di Benevello" vede sulla langa bassa la cascina del padrone Tobia e prova un sentimento di ribellione insieme alla tentazione del suicidio.

Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama; neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino.
E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché m'era subito venuta in mente mia madre, che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia. (pag. 142 ) 1

E' il sapiente incipit del racconto, lo spazio organico del testo in cui si concentra il massimo di anticipazione informativa.
"Tirai dritto" è un sintagma di sapore dialettale; esso equivale nel contesto a non cedere allo scoraggiamento per affrontare con forza la vita grama, significa essere un uomo tutto d'un pezzo, che capisce dall'esempio della madre e dalla sorte simile del fratello che la sofferenza è la trama della vita. Nella pagina successiva Agostino suggerisce simbolicamente quali siano i confini del suo mondo; ricorda la sorella morta prima che egli nascesse e che per questo motivo "non gli mancava" ("Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio"); e aggiunge:

però anche allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da un'altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra. (pag. 143)

Il camposanto è il luogo delle radici, in cui Agostino avverte che è custodito qualcosa di sacro che gli appartiene, come è la terra per il padrone. E a questo luogo si avvicinerà di proposito con commosso sentimento di figlio la sera della sepoltura del padre.

Io (...) uscii nel freddo, arrivai al camposanto e mi misi ad andar su e giù lungo il muretto come se facessi un po' di compagnia a mio padre, poi sentii dei passi sulla neve; era Emilio che veniva con la stessa mia ispirazione, ci gettammo l'uno incontro all'altro e ci piangemmo sulla spalla. (pag. 165)

Questo abbraccio con Emilio, che ha il medesimo sentimento di Agostino, rivela la profonda affinità tra i due fratelli nell'attaccamento alla famiglia, alle memorie, ai Penati; in questo incontro senza parole, segnato semplicemente dal pianto comune, c'è la premessa dell'esito della vicenda dei due fratelli.
Emilio non diventerà sacerdote nel seminario, ma ritornerà nella sua casa per morirvi presto di tisi e dove sua madre potrà "chiudergli gli occhi"; Agostino ritornerà per riprendere il lavoro sui campi là dove l'avevano interrotto suo padre, alla morte, e il fratello Stefano, che non a caso è assente dall'incontro lungo il muretto del camposanto. Egli da quando era tornato dal servizio militare si chinava svogliatamente sulle zolle e "alzava la schiena ogni cinque minuti e guardava sovente al passo della Bossola " (pag. 145) come ad un varco per la fuga.
Quell'abbraccio davanti alle spoglie paterne assume il valore di una premonizione: quella del ritorno alla casa e al podere della famiglia, in un Eden di pace e di affetti, il testo in grecodel cammino di formazione dei due fratelli: il cammino nel microcosmo del Pavaglione, dell'alta langa e di Alba, che è lo specimen del mondo tout-court di Agostino, e il cammino nel chiuso mondo del seminario di Emilio. Sono due vite parallele sacrificate alla necessità economica: Emilio è avviato al sacerdozio per volontà della maestra Fresia, disposta a estinguere il debito di cento lire contratto dalla famiglia; Agostino "come un agnello in tempo di Pasqua", quasi vittima sacrificale, è sistemato come servo al prezzo di sette marenghi l'anno nella cascina coltivata a mezzadria da Tobia.
Il sacrificio dei due fratelli si consuma nel silenzio:

Emilio non disse niente, come niente dissi io davanti a Tobia Rabino che diventava mio padrone, i vecchi dissero di sì abbastanza in fretta. (pag. 145)

Agostino diventa adulto attraverso un aspro apprendistato alla vita. In effetti il racconto fenogliano è un bildungsroman, un romanzo di formazione, nel quale in una scrittura sintetica e densa, priva di indugi, che colpisce con forza proprio per questo, è rappresentato un universo multiforme di personaggi con sentimenti e caratteri veri, di fatti, di situazioni. Ma al succedersi e intrecciarsi degli avvenimenti, al variare delle relazioni e delle scoperte di Agostino è sottesa, come un filo d'oro, una costante della coscienza e della memoria, che è il valore della fedeltà alle origini, agli affetti familiari, alla terra, una cosa sola con la fedeltà ai valori del lavoro e della rettitudine. Agostino vive con sofferenza e dignità, con animo attento e riflessivo, la sua odissea di servo-contadino, portando nel cuore, come l'eroe greco, la sua piccola patria, San Benedetto, i suoi cari, il suo podere.
E a questo mondo, come alla vera patria, egli tornerà per restarvi per sempre. Era questo il suo "sogno", come dirà nelle ultime pagine.
La fedeltà è compensata con il ritorno e Agostino vivrà il suo "come la sua vera festa".
Fenoglio conclude in modo positivo l'avventura umana del suo protagonista: la coerenza nel mantenere fede ai propri valori, anche nel contrasto e confronto con l'esempio diverso del fratello Stefano e del padre, tentato dall'affare della censa di San Benedetto, e con le proposte apparentemente allettanti di Mario Bernasca, non può non essere premiata con la realizzazione del "sogno", di un grande sogno, che è la prospettiva di vivere sempre nel mondo delle origini, riconosciuto come l'unico mondo, che appartiene veramente.
Questa conclusione risponde ad un'esigenza di giustizia dello scrittore, che nella pagina letteraria, attua la ricomposizione dei valori, che sono gli affetti e la dignità del lavoro, conculcati dalla tirannia del bisogno economico, dalla "malora" appunto.
Lontano da San Benedetto, nelle giornate faticose sui poderi del Pavaglione, al fianco di Tobia e dei suoi figli, "che tiravano come tre manzi sotto un solo giogo" "per arrivare a farsi la roba" (pag. 149) Agostino ripensa con struggimento al mondo da cui ha dovuto separarsi; sono le persone che ha lasciato, la casa, il bene, le acque del Belbo dei suoi giochi di ragazzo, a risvegliare in lui emozioni e ricordi.
Possiamo leggere pagine molto significative sotto questo aspetto.
Agostino un giorno si trova involontariamente ad ascoltare un colloquio tra Tobia e suo figlio Jano e scopre così che il padrone progetta di acquistare "una dozzina di giornate, non di più, tutte a solatìo" e allora pensa "non me ne sarebbe fatto niente se con quel mio lavoro da galera io li avessi aiutati solo a togliersi la fame e il freddo, ma che mi pigliassero la pelle per arrivare a farsi la roba loro proprio mentre a casa noi perdevamo il nostro bene tavola a tavola, questo mi mise l'invidia e un veleno nella mia stanchezza." (pag. 149)
Non sfugge la valenza del termine "bene" in rapporto e in contrasto con il termine "roba"; il primo designa con una connotazione affettiva il terreno di proprietà della famiglia, le cui zolle sono qualcosa di più che un possesso, sono la terra coltivata dagli avi, fonte di vita, una cosa sola con il legame familiare; il secondo evoca l'ossessione del personaggio verghiano Mazzarò accecato dall'avidità di possesso come è accecato Tobia, insensibile alla fatica dei figli e di Agostino e incapace di vedere della moglie il deperimento e la malattia.
E per Agostino il "bene" dei suoi diventa ancor più un motivo di sofferenza e di inquietudine.
Tobia ha deciso di scendere in Alba con un carico per il padrone della cascina e di condurre con sé per averne aiuto proprio Agostino. Questi è ansioso di vedere la città:

A ogni svolta m'aspettavo di veder Alba sotto i miei occhi come una carta tutta colorata (...) Non c'era nessun bisogno che Tobia mi gridasse nelle orecchie di guardar Alba perché io me n'ero già riempiti gli occhi e per l'effetto lasciai la bestia e passai sul ciglio della strada a guardar meglio. Mi stampai nella testa i campanili e le torri e lo spesso delle case, e poi il ponte e il fiume, la più gran acqua che io abbia mai vista (pag. 151).

Agostino è emozionato perché sa che "mentre è tanto lontano da casa che vede Alba, a casa in un certo senso ci torna, perché suo fratello Emilio sta in Alba" (pag. 151). E quando Tobia gli indica il "gran palazzo" del seminario dove suo fratello "studia da prete" Agostino " ha la febbre di arrivare e mentre consuma il pranzo su uno scalino dello stallaggio, senza parlare come i frati, manda giù la roba senza sentirci il gusto, forza che vuole correre a vedere Emilio nel suo nuovo stato" (pag. 153).
Lo incontra finalmente nel parlatorio ed è colpito dal suo pallore ("era in faccia come se il sole per lui non s'alzasse più") come da un funesto presentimento.
Si accende di emozione quando Emilio gli dice di aver ricevuto una lettera da casa e lo interroga sul contenuto, lo invita a scrivere a sua volta per informare che l'ha visto in buona salute e chiede di vedere "la lettera da casa" (pag. 154) la prossima visita. E' evidente che quella non è una semplice comunicazione, ma è il documento degli affetti, il "luogo" rassicurante di un legame tra coloro che sono costretti a vivere lontani.
Questo incontro è ulteriormente rivelatore; ma leggiamo il dialogo:

- Agostino, hai del denaro appresso?
Avevo dieci soldi e li tirai fuori: - Li vuoi? Tanto io non sono buono che a perderli al nove.
- Ho fame, Agostino. Esci un momento con quei soldi e comprami qualcosa da mangiare.
- Cosa ti compro? - Mi ricordavo sì di quello che gli piaceva mangiare a Emilio, ma ai tempi di casa, adesso mi sembrava di dovergli domandare anche come respirasse.
- Comprami qualunque cosa.
Io subito non mi mossi, stavo coi miei dieci soldi in mano e negli occhi di mio fratello vedevo come in uno specchio me e lui al paese, un dopopranzo di festa, che pescavamo con le mani i gamberi in Belbo. (pag. 154)

Questo dialogo di grande intensità poetica ci rivela l'apprensione di Agostino per la salute del fratello, il suo desiderio di accontentarlo nella scelta del cibo da acquistare in modo che possa avvertire i sapori di casa e il ricordo del pomeriggio di festa trascorso a pescare nelle acque del Belbo.

- Comprami qualcosa che mi rallegri - e mi toccò sul braccio per farmi svegliare e partire. (pag. 154)

La parola "Belbo" non è pronunciata; Agostino "vede" negli occhi del fratello, negli occhi che sono lo "specchio dell'anima", quell'immagine e vive un momento di incantesimo e di sospensione. La "visione" cattura l'attenzione di Agostino sulla sequenza di un gioco con il fratello nelle acque del Belbo. Ma la visione, che rievoca la stagione di felice inconsapevolezza dell'adolescenza, si colloca al centro di un contesto triste che turba Agostino, il quale nel suo cammino di maturazione intuisce, forse ancora confusamente, che quella stagione è perduta per sempre. Quel luogo e quel tempo hanno la connotazione pavesiana del "paradiso infantile" e "del tempo sospeso" in cui secondo la suggestione di Pavese "accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico" 2.E sono anche il luogo delle origini e il tempo della serenità, amati e agognati, come dall'esilio nella greve penombra del seminario e sulle dure zolle del Pavaglione. Agostino è "svegliato"dall'incantesimo dalla necessità di appagare la fame del fratello. Egli dopo l'acquisto di "roba mangiativa" ritorna al seminario per consegnargliela, ma incontra soltanto il portinaio; il fratello è già in cappella con gli altri seminaristi.

Dovetti decidermi a uscire, una volta fuori mi girai a guardare da sotto in su la facciata del seminario, e feci anche qualche passo in un vicolo dove il fabbricato continuava, come se cercassi un pertugio che mi lasciasse rivedere mio fratello: davanti alla pietra tutta cieca sentii il bisogno di chiamar forte nostra madre, per tutt'e due. (pag. 155)

E' anche questa una scena rivelatrice, con tratti espressionistici: la parete esterna dell'edificio appare ad Agostino "una pietra tutta cieca"; è la muraglia invalicabile che separa dal vincolo affettivo che è nel cuore e nel sangue; è il simbolo della separazione angosciosa da una persona cara; e dall'angoscia scaturisce il bisogno di invocare la madre per ricomporre così nel cuore il nodo familiare.
Subito dopo Agostino ritorna allo stallaggio in attesa di Tobia; non è un caso che nella solitudine avverta il desiderio di trovarsi al Pavaglione; dice "Avevo voglia del Pavaglione, lo sentivo casa mia, ed ero sicuro che anche Emilio sarebbe stato ben contento d'esserci." (pag. 155)
Di fronte al muro simile a quello di una prigione anche il Pavaglione può diventare il surrogato della propria casa, perché là c'è una famiglia, vi è la padrona maternamente vigile su Agostino come sui suoi figli, là c'è Ginotta che rende "meno brutto" il Pavaglione, e c'è la terra da coltivare 3.Il cruccio per la sorte di Emilio già minato nel fisico, la nostalgia della madre e il desiderio di ritrovarsi insieme sulle sponde del Belbo (questo "ritorno" al Belbo non è casuale) sono i motivi che tornano elegiacamente nel secondo incontro con Emilio nel seminario. Agostino apprende dal fratello che la madre è venuta a fargli visita e anche che lei

sul biroccio di Canonica alla vista delle prime case di Alba era passata dietro e s'era accovacciata dentro una corba, per paura e vergogna della città. (pag. 178)

Il protagonista aggiunge:

Io mi misi a dire - Che stupida, nostra madre. Che stupida, nostra madre, - ma intanto giravo gli occhi per quella stanza dove lei era stata qualche sabato fa, ed ero talmente incantato che non davo nessuna risposta a mio fratello. Mi scrollai a sentirlo tossire; una tosse secca e maligna, che l'obbligava a tenersi il petto con le due mani, alla quale non feci abbastanza caso ma che invece avrebbe dovuto mettermi sull'avviso fin d'allora. (pag. 178)

Agostino vive un altro momento di commosso incantesimo: quella stanza che aveva accolto la madre sembrava a lui ancora piena della sua presenza, di quella presenza di cui avverte in modo struggente la privazione. E il colloquio diventa a mano a mano più confidenziale e affettuoso, pur nella reticenza di Emilio sul suo futuro, fino alle battute conclusive schiette e aperte:

- Sei ben bravo, Agostino, a farti tutta quella strada per venirmi a trovare.
- Io per venire a trovare te lascerei un pranzo di sposa. Solo potessi vederti una volta in un altro posto che qui. Non si può passarci una mezza giornata io e te insieme, fuori per Alba, un po' più avanti nel caldo, nei giardini pubblici o magari in riva al Tanaro?
- Danno il permesso solo a quelli che hanno la fortuna d'avere dei parenti in Alba. Ma chissà che noi due non possiamo vederci a casa, e fare insieme un giro lungo Belbo, ma dal mattino alla sera, e con da mangiare appresso. (pag. 179)

Il legame tra i due fratelli è profondo: Emilio si rivela a mano a mano come l'alter ego di Agostino, dotato di una sensibilità affine, sofferente per il distacco da quanto ha lasciato lassù a San Benedetto e segnato dalla medesima sorte di fatica e di privazione.
L'affetto di Agostino è efficacemente rivelato da questa dichiarazione "Io per venire a trovare te lascerei un pranzo di sposa". Per lui che ha sperimentato la fame, il pranzo di nozze rappresenta l'appagamento di un desiderio intenso, la gioia della sazietà, come ci rivela l'attesa del pranzo della sposa Ginotta, da cui Agostino ha paura di essere escluso perché non parente, "ma solo servitore". E al fratello privato anche della vita all'aperto a cui era avvezzo, avanza la proposta di trascorrere mezza giornata nella città o in riva al Tanaro; ma Emilio propone l'alternativa di una vacanza a casa e in riva al Belbo: a questi desidera ritornare Emilio; qui desidera rivedere Agostino, che vorrebbe anche lui questa vacanza, ma sa che a causa del lavoro che urge quello svago sarà impossibile. E' di nuovo presente il luogo mitico dell'infanzia e dell'adolescenza, di cui Agostino, maturato nell'esperienza difficile del Pavaglione, sa di non poter gioire con il fratello. Egli è già l'adulto di cui parla Nietzsche nelle "Considerazioni inattuali", diverso dal bambino "che non ha ancora nessun passato da rinnegare che giace in beatissima cecità tra le siepi del passato e del futuro" e ha "la capacità di sentire in modo non storico" 4, perché egli, in quanto adulto, sa che cosa lo attende nel futuro e ricorda il suo passato, vive cioè in modo storico. Non è tuttavia senza significato il desiderio di ritrovarsi insieme lungo il corso d'acqua, il Tanaro o il Belbo: l'acqua simboleggia il ritorno alle origini, la generazione e la rigenerazione, dopo la discesa "agli inferi" dell'esilio 5.
La morte del padre è l'epicentro dello svolgimento dei fatti e insieme l'avvenimento che svela la gravità del tradimento nei confronti della terra, avvertito come una forma di empietà, perché è stato un atto di rifiuto del proprio mondo, del lavoro degli avi e della terra che l'ha nutrito. Il non voler più inchinarsi sulla terra ha significato la volontà di varcare il limite imposto dalla sorte, quasi un atto ditesto in greco 6. E l'testo in greco, come nella tragedia greca, viene punita.

Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati di Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi sulla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. (pag. 142)

Agostino dopo la morte del padre capisce che l'origine della diaspora e del declino della famiglia è stato il disegno insano di abbandonare il lavoro dei campi per l'attività di compravendita nell'illusione di un guadagno più facile. Agostino diviene servo per sette marenghi l'anno, Emilio deve proseguire gli studi nel seminario, la madre raddoppia la lavorazione di formaggio fermentato e "si fa due colline" per venderlo al miglior prezzo,

dimodoché diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti, in faccia tutta bianca con delle macchie rosse. (pag. 143)

Sulla famiglia Braida incombe la testo in greco tragica toccata ai Malavoglia del Verga, che vollero intraprendere "il negozio dei lupini", trasformandosi in commercianti da pescatori.
Nella narrazione la consapevolezza che il tradimento delle origini e della terra è una colpa è evidenziata da un particolare, riferito al funerale del padre, che ha una connotazione cupa:

Quando uscimmo di chiesa il tempo s'era girato: il sole era andato a nascondersi e al suo posto c'era il vento; un'ariaccia arruffava la coperta sulla cassa e una volta che fummo fuori del paese spense i ceri alle carmelitane. Ci fermammo perché potessero riaccenderli, ma quell'aria glieli smorzò di nuovo e allora andammo avanti così. (pag. 164)

Il critico V. Boggione opportunamente ricorda la liturgia riservata agli scomunicati e il racconto dantesco della sepoltura del re Manfredi (III° canto del Purgatorio)7: il padre che ha rifiutato la comunione originaria con la terra, quasi un legame religioso, ha - per così dire - meritato una simile sepoltura. Ma Agostino, benché sia consapevole della sua colpa, gli vuole bene. Avvertito della disgrazia del padre, caduto nel pozzo, prova disperazione e ripensa alla vita di lui, "a tante parole e gesti suoi (") piangeva e gridava a suo padre che non succedeva se lui era a casa, invece che l'aveva mandato a servir lontano". (pag. 162) Quel ripensare alle parole e ai gesti del padre è come una carezza affettuosa e una manifestazione di rimpianto; anzi Agostino è convinto che se fosse stato a casa l'incidente non sarebbe successo; e così pensando rivela di sentirsi la vera difesa e il sostegno della casa e dei suoi. Non solo questo. Dopo la morte del padre Agostino sente l'esigenza di ripercorrere la genealogia della sua famiglia. Inizia così il racconto:

Se cerco qualche fatto che possa dare un quadro di mio padre e del nostro sangue, la prima cosa che mi viene in mente è come ha fatto a conoscere e sposare nostra madre; ma bisognerebbe sentirlo contare da Netino, come ce l'ha contato a me e a Emilio l'ultima volta che fummo dai nostri parenti di Monesiglio per la festa di San Biagio. (pag. 165)

Tutto il passo potrebbe apparire una digressione; ma l'economia narrativa di Fenoglio non ammette certo superfluità. Il passo in effetti ha un legame significativo con la trama di riferimenti al valore delle origini e al mondo temporaneamente perduto. Conosciamo così il primo incontro del padre Giovanni Braida con Melina di Biestro, presentata come un'amazzone ("montava a cavallo come un uomo"), "un po' carabiniera", "mai vista su un ballo", seria lavoratrice e di poche parole . E conosciamo le motivazioni dell'assenso del fratello di Melina al matrimonio:

Io come fratello sono contento perché ti conosco per un bravo figlio, con la tua fetta di bene al tuo paese e qui a Monesiglio hai una buona parentela. (pag. 168)

Sono le motivazioni proprie della mentalità contadina di un tempo.
Su quel "bene" Agostino spera di poter lavorare per sempre dopo la morte del padre:

Io avevo sperato, quantunque sapessi bene che non potevano farlo, che con la morte di nostro padre i miei mi facessero fermare a casa per sempre. (pag. 170)

Ma non è così: l'egoismo di Stefano, che egli "vede solo più buono per se stesso" e il silenzio della madre convincono Agostino a ritornare al Pavaglione, nonostante la "rabbia e la desolazione".
Qui avvengono due incontri molto significativi, che potrebbero imprimere una svolta nella sua vita. Il primo è l'incontro con Mario Bernasca, anche lui servitore, coetaneo di Agostino, ma con "tutt'un'altra malizia", il secondo è l'incontro con Fede, la "servente", che Tobia si decide ad assumere perché aiuti la moglie esausta per la fatica e ammalata.
Come Ulisse resiste al canto delle sirene e alle promesse di Calipso, così Agostino non si lascia convincere dalle proposte di Bernasca. Questi non tollera più il giogo del lavoro "nel lenzuolo di terra" di due "vecchi particolari" e accarezza progetti più redditizi come fare il mietitore o, terminata la stagione del grano, fare il panettiere o il macellaio o lo stalliere o tornare al lavoro di servitore in una cascina in val di Diano, più prospera dell'alta Langa.
Agostino ad ogni proposta oppone le sue obiezioni, ma tace l'argomento più vero e profondo:

ma non potevo mica dirgli a un originale come Mario che, a parte il coraggio e il naturale, conservare il posto da Tobia era per me una maniera come un'altra di tener la memoria di mio padre che mi ci aveva aggiustato prima di morire, e di salvare il rispetto della mia famiglia, che almeno avrebbe sempre saputo dove ero il giorno e la notte. (pag. 183)

La memoria del padre e la salvaguardia del rispetto della famiglia sono i valori che orientano la scelta di Agostino e lo salvano dalla precarietà e dall'insicurezza. Né la complicità né l'amicizia di Bernasca lo distolgono dal guardare alla famiglia come alla stella polare della sua esistenza.
Solo l'amore per la giovinetta Fede può indurre Agostino a progettare una vita sua, con la donna amata, lontano dai suoi e dalla casa.
Fenoglio ha scritto pagine di autentica poesia, perché vere e pudiche, nel cogliere i sentimenti dei due giovani che scoprono per la prima volta il sentimento dell'amore. Il nome stesso della fanciulla illumina la svolta interiore di Agostino, che si apre ad una nuova fiducia nel futuro. Il dialogo tra i due giovani delinea il progetto di vita e di lavoro insieme; esso è costruito con estrema economia espressiva senza una parola di troppo e vibra della medesima liricità del dialogo di Mena e Alfio nel cap. VIII dei Malavoglia.

- A me mi daresti fiducia?
- Se sarai sempre quello d'adesso, tanta.
- E come uomo ti piacerei?
- Come uomo mi piaci.
(...) Le dissi adagio: - Ci sono delle schiavenze in giro da prendere.
Lei capì al volo e mi rispose: - E' proprio da lì che bisogna incominciare con tanta pazienza e voglia.
(...) - Aspetta, dimmi almeno quando ti sei decisa.
Senza voltarsi mi disse: - Son mica cose che hanno il suo giorno preciso. (pag. 196)

Per la prima volta Agostino non pensa al paese e alla propria casa, ma ad una "schiavenza", non importa dove; e per realizzare in breve tempo questo progetto si adopera per assumere le informazioni utili sulle schiavenze libere, disposto ad accettare anche un "affare come i galeotti", anche una "schiavenza sotto le rocche di Cissone". (pag. 198)
Anzi il pensiero e le preoccupazioni per i familiari diventano secondari rispetto al nuovo affetto:

Non volevo neanche più sentir parlare di licenza e, non ho nessuna vergogna a dirlo, l'unico pensiero per i miei era che fossero tutti vivi, perfino Emilio mi veniva in mente da raro e per un attimo. Pensavo solo per me e Fede. (pag. 197)

E' un sentire umanissimo, proprio dell'uomo che scopre una nuova dimensione della propria interiorità e della vita: è la prospettiva indicata nel libro della Genesi e ripresa nel Vangelo, secondo la quale "l'uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola".
Per Agostino Fede è un raggio di luce nelle giornate oscure del Pavaglione, è una speranza e una promessa di vita nuova. Essa appartiene al numero delle donne che nella poesia hanno rappresentato l'attesa, il sogno e insieme l'utopia dell'armonia con il mondo e della felicità come Teresa delle "Ultime lettere" del Foscolo, come Silvia, come Esterina. E il protagonista che vive per la prima volta nel suo intimo questa esperienza, pronuncia le parole più giuste e più vere, compie i gesti d'amore più spontanei e pudichi, con la sensibilità di un uomo che sa provare emozioni profonde. Egli è in qualche modo il "fratello maggiore" dell'adolescente del racconto fenogliano "L'addio", il "ragazzo della Collera", colpito nel cuore dalla fanciulla Nella della Mellea per la sua figurina sottile, ma anche per i suoi "occhi più profondi e più vecchi delle altre ragazze" e capace di farla vivere e idealizzarla nel suo intimo. Anche questi è costretto a non rivederla mai più a causa della miseria della famiglia di lei, che emigrerà in Francia per fuggire dalla fame e dai debiti.
Agostino appartiene a buon diritto alla schiera dei protagonisti fenogliani (dei racconti e dei romanzi) caratterizzati da ricchezza interiore e nobiltà di sentimenti, che li distinguono tra gli altri personaggi.
Agostino idealizza Fede e osserva in lei qualità particolari, che in qualche modo l'avvicinano a lui:

Lei poteva stare per delle ore al fornello e poi voltarsi pulita come se in tutto quel tempo non avesse fatto che la signora, si muoveva sui suoi zoccoli senza mai sbatacchiarli, e la sua voce aveva più d'un tono, come la voce delle donne d'Alba. Ma con tutta la sua grazia bisognava vederla sul lavoro e il sollievo che dava alla padrona. (pag. 192)

Adesso per niente al mondo mi sarei più allontanato dal Pavaglione, fin che ci stava Fede era il posto più bello di tutti. (pag. 197)

Ero persuaso di poter fare qualunque riuscita, nel mio piccolo, con Fede accanto, e che la fortuna m'avrebbe sempre accompagnato, da qualunque posto avessi cominciato. (pag. 198)

Ma anche la vita di Fede, come quella di Agostino, è soggetta alla legge del primato dei valori economici. Con forza e rapidità espressiva Fenoglio presenta il repentino capovolgimento della buona sorte proprio nel momento in cui Agostino già si sente "l'uomo" di Fede. (cfr pag. 198)

E invece ne son venuto in niente. (pag. 198)

Fede obbedisce al padre e al fratello che l'hanno promessa sposa a uno dei fratelli Busca, proprietari del "più bel boccone di terra che ci sia a Castino". Fede lascia la casa di Tobia e Agostino silenziosamente (è il silenzio la risposta dei poveri alla dura legge del bisogno), "cogli occhi bassi" e in gran fretta, perché i suoi parenti temono di "perdere per un'ora l'affare".
I sentimenti sono sacrificati ad un "affare" e Agostino rimane "come un vitello dopo la prima mazzata": è da notare la verità del paragone preso - come altri nel testo - dall'esperienza della vita contadina.
E' questa l'altra separazione dagli affetti che Agostino sperimenta dolorosamente.
Fenoglio ha costruito il racconto secondo una struttura anulare: il protagonista, dopo essere stato costretto a lasciare la famiglia e il paese per avventurarsi nel piccolo mondo del Pavaglione, nel quale a poco a poco riflettendo sugli uomini e sugli avvenimenti abbandona l'ignoranza delle cose per acquistare la consapevolezza dell'uomo maturo, grazie ad "un colpo di fortuna" può ritornare là donde era partito. Il cerchio così si chiude con la soluzione positiva della vicenda del protagonista.

Ebbene nel pieno della malora e che la vita m'era diventata insopportabile al Pavaglione dove non potevo fare mezzo passo senza dar nel naso in qualcosa che mi ricordava Fede, la ruota diede un giro e io ebbi un colpo di fortuna, il primo in vent'anni ch'ero al mondo. (pag. 200)

Nel momento della tenebra più fitta, dileguatasi ogni speranza di cambiamento, un raggio di luce si proietta sul futuro di Agostino. E questo futuro è nel segno della continuità con il passato, perché egli è rimasto fedele alle origini contadine, al paese, alla casa e alla terra. Sradicato dal suo mondo dalla dura legge della malora, ha sempre riconosciuto che le sue radici aderivano tenacemente a quel mondo. Il ritorno era il suo sogno:

Stefano non aspettava altro che lasciare la terra che tanto era diventata troppo bassa per la sua schiena e io era il mio sogno tornarmene a casa a farla andare io. (pag. 200)

Esce così di scena Stefano, il fratello non fedele alla terra, presentato nelle prime pagine del libro come svogliato e riluttante al lavoro sulle zolle.
Egli sollevava spesso lo sguardo al passo della Bossola, la via verso il mare, come 'Ntoni Malavoglia guardava lontano "dove finisce il mare", come Anguilla di Pavese era attratto da Canelli, la porta del mondo.
La scelta di Fenoglio è ricca di significati, problematica e originale: egli ripropone il tema del ritorno, presente nei Malavoglia come ritorno di Alessi alla "Casa del nespolo" e come ritorno dolorosamente provvisorio del giovane 'Ntoni dopo la sua esperienza di perdizione, e presente nel romanzo pavesiano "La luna e i falò" come ritorno di Anguilla nei luoghi mitici dell'infanzia e dell'adolescenza, nei quali il protagonista non può più rimanere e vivere, perché la guerra con i suoi orrori e le morti ha rappresentato una frattura storica non più ricomponibile tra la memoria di un tempo felice e l'esistenza presente dell'uomo adulto.
Ma il nostro autore ricrea il mito del ritorno e lo rifonda su motivazioni ideali e poetiche nuove.

Ho fatto quel ritorno come la cosa più bella della mia vita. Era la mia vera festa, e ad Arguello mi fermai all'osteria, comandai una bottiglia di moscato e me la bevetti tutta per festeggiarmi. Mi sembrava di tornare come un soldato, non da permanente, ma proprio dalla guerra. In tutto quel sole l'unica ombra veniva quando gli occhi mi scappavano a guardare alla langa di Castino.
Arrivato a vedere San Benedetto, posai il mio fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restarci fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolla, purché senza più un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto. (pag. 200)

Il salire verso San Benedetto sotto il sole che splende è una vera festa, fonte di una felicità mai provata, che richiama per contrasto la discesa dolorosa, mentre "pioveva su tutta la Langa", verso la cascina di Tobia, con cui si apre il racconto. L'analisi semiologica, secondo le indicazioni di J.M. Lotman, ci aiuta a scoprire con facilità i significati simbolici sottesi alle linee verticali, orientate verso il basso e verso l'alto, del cammino di Agostino.
Tra i due estremi si svolge la guerra che il protagonista ha combattuto come un soldato. E' la guerra dell'esistenza umana per la quale ogni adolescente diventa uomo.
Agostino ha conosciuto la povertà con quanto essa porta con sé, la fame, il freddo, la penuria di denaro ("tutte le volte che vedeva sua madre tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, Agostino tremava, tremava veramente ". pag. 143); ha accettato la regola del lavoro senza tregua e della fatica nella campagna di Tobia, di cui ha sperimentato l'avidità e la rozzezza; ha riflettuto sul rapporto di forza che esiste tra proprietario e mezzadro e tra servo e padrone; ha sofferto per la mancanza degli affetti e per la solitudine; il suo animo si è aperto al sentimento dell'amore, ma ha conosciuto anche la delusione cocente del distacco dalla donna amata. Ma il culmine di ogni esperienza, la vera svolta verso la maturità, è stato l'incontro con la malattia e con la morte, la malattia del fratello, la morte tragica del padre, il suicidio di Costantino del Boscaccio, un marchio sulla famiglia.
Agostino è un uomo vulnerabile per la sua sensibilità e perciò sofferente; è la figura dell'uomo sconfitto apparentemente dalla vita, che alla fine scopre e assapora la felicità proprio perché sconfitto e perchè nella sua avventura esistenziale a contatto con la deriva umana non ha perso l'integrità e l'innocenza e può così tornare al luogo della sua originaria innocenza, ma egli è puro di un'innocenza nuova, non più ingenua e inconsapevole, per altro impossibile dopo aver percorso le vie del suo piccolo mondo, che è l'emblema del mondo. Egli ha osservato, meditato, sperimentato la realtà sulla propria pelle e nel suo cuore, rimanendo se stesso, limpido, retto, giusto, e può pertanto recuperare, diventato uomo, il suo Eden della purezza primigenia.
Colui che appariva lo sconfitto, un servo guardato dall'alto in basso dalla "servente" di Alba, respinto dal padrone "perché ha un sudore allo zolfo che fa venir male" (pag. 176), non considerato dai parenti perché servo di campagna, è il vero vincitore. Ed è tale perché possiede una sua ricchezza interiore, ha scelto la verità degli affetti, ha rifiutato lo sradicamento e il transeunte per mantenersi fedele alle radici, al tempio delle memorie che è la casa, alla terra venerata come sacra.
Il giuramento di Agostino, giunto in vista di San Benedetto, esprime la sicura consapevolezza che quel mondo è il suo vero mondo, da cui non si separerà mai.
Dopo il giuramento incontra la madre: i valori perenni sono la terra e l'affetto della madre; la terra sentita francescanamente come sostentatrice, ma anche, in questo contesto, come una creatura femminile da contemplare, da proteggere e da fecondare; la madre come vestale del focolare domestico, che non abbandonerà Agostino nemmeno dopo la morte, ma dal cielo terrà la mano sul suo capo (cfr. pag. 85).
Agostino avverte finalmente di essere il protagonista e l'artefice della sua vita:

Stefano non aspettava altro che lasciare la terra che tanto era diventata troppo bassa per la sua schiena e io era il mio sogno tornarmene a casa a farla andare io. (pag. 200)

La ripetizione del pronome di prima persona nella sgrammaticatura ricercata ha una sua forza espressiva.
Il racconto si chiude con la ricomposizione del nucleo familiare dopo la diaspora: rimangono coloro che non hanno mai voluto varcare il limite imposto dalla sorte, anzi lo hanno accettato senza tradire le origini.
La Malora è una grande metafora della vita: nell'esistenza di ogni uomo esiste il dolore, causato dagli altri uomini o dalla sorte; questo dolore non è mai assolutamente un oscuro baratro, perché in esso possono aprirsi sprazzi di luce (la dolcezza materna e la pietas religiosa delle figure femminili, il sentimento dell'amore e dell'amicizia, l'orgoglio del lavoro compiuto"); ma ogni uomo anela ad una "terra promessa" al di fuori della quale è alienato e infelice. Agostino è l'interprete di questo anelito.
E San Benedetto non è solo un preciso luogo geografico della Langa, ma è un luogo dell'anima, o meglio, il non-luogo, l'utopia della felicità.
Il nome stesso del luogo reale rimanda ad un luogo metafisico, "benedetto" e desiderato nel cuore, esistente solo nella poesia, l'unica via di accesso a verità umane profonde. E Agostino è un eroe metafisico: Fenoglio ha individuato il protagonista in un servo di campagna, tra gli ultimi della scala sociale nella civiltà contadina, che tuttavia realizza il suo sogno di felicità.
Lo scrittore pare proporci in una prospettiva laica il principio evangelico, secondo il quale "molti tra gli ultimi saranno i primi e molti tra i primi saranno gli ultimi" (Mt. XIII, 30); i primi sono gli uomini puri e giusti, alieni dall'egoismo e dalla sopraffazione, che anzi subiscono, dotati della volontà determinata di superare le sconfitte con la fiducia in se stessi, con la fedeltà al lavoro onesto e con la coerenza rispetto ai valori che hanno scelto. Questi sono i primi nella visione dello scrittore. Agostino è uno di questi.
Analogamente, in trasparenza, nel racconto si intravede un modello di civiltà: quello della civiltà dei sentimenti, del rispetto di ogni uomo, del lavoro libero e liberatorio, senza oppressione e senza sfruttamento, consono alle aspirazioni di ognuno. Ma questo modello appartiene all'utopia letteraria.
Così, attraverso la metafora poetica dell'avventura di Agostino, Fenoglio ci ha lasciato un messaggio etico nobilissimo.

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