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Vite (quasi) parallele nelle Langhe di Cesare Pavese & Beppe Fenoglio

Giuliano Confalonieri

PREFAZIONE
Nel 1960 uscì “Il taccuino di un vecchio”, conclusione della trilogia del poeta Giuseppe Ungaretti (1888/1970), versi che sottolineano l’ansia dell’esistenza quotidiana, sempre in bilico tra la positività e la negatività dell’esperienza. Nel lavoro di Giacomo Leopardi (1798/1837) affiorano i dualismi ‘natura e morte’, ‘piacere e dolore’, temi atemporali e universali che ci angosciano da sempre; anche il ‘poeta del limbo’ Francesco Petrarca (1304/1374) parla del regno dove il dolore è eterno. Marco Tullio Cicerone (106 a.C./43) ha lasciato lo scritto “La vecchiezza – De senectute” nel quale dialoga sull’argomento lodando “quella vecchiezza che sta salda sui fondamenti posti nella giovinezza ... La vecchiezza ha un’autorità così grande che vale più di tutti i piaceri della giovinezza”. Ippolito Nievo scrisse “Confessioni di un italiano ottuagenario”, Italo Svevo (1861/1928) si sofferma sull’arida inerzia della “Senilità”, Giuseppe Berto subisce il “Male oscuro” (1914/1978), ovvero una inquieta autoanalisi psicologica. Albert Caraco, nato a Costantinopoli nel 1919 e morto suicida nel 1971 il giorno dopo la morte del padre, ha pubblicato due libretti nei quali nichilismo e anarchia soverchiano ogni altra interpretazione della realtà: “Post mortem” e “Breviario del caos”.

L’inglese Oscar Wilde (1854/1900) in “De profundis” – opera scritta in carcere e pubblicata postuma – esprime una torbida amarezza cancellando la sua propensione all’autocompiacimento estetico. Fèdor Dostoevskij (1821/1881) in “Umiliati e offesi” e in “Memorie del sottosuolo” esprime la sofferenza infernale della solitudine e della malinconia: “Se ciascuno di noi fosse obbligato a rivelare i lati più nascosti di se stesso, nel mondo si spargerebbe una tale puzza da soffocare tutti quanti”. Il suo contemporaneo Ivan S. Turgenev (1818/1883) in “Padri e figli” appoggia l’analisi dei comportamenti sul nichilismo che nega la realtà. William Shakespeare (1564/1616) propende in molte sue tragedie al pessimismo con il quale conferma l’irrazionale tramite personaggi sanguigni. L’astrofisica Margherita Hack (Firenze 1922) commenta “L’idea che esista Dio mi sembra talmente assurda! Non c’é né Dio, né l’aldilà, né l’anima. Quello che noi chiamiamo anima è il nostro cervello”.

L’anticonformismo sulla ‘mostruosa quotidianità’ dell’americano Charles Bukowski (1920/1994) è un altro modo di negare l’esistenza così come – con un azzardato confronto letterario – in “Viaggio al termine della notte” lo scrittore francese Louis Céline (1894/1961) riflette la sua concezione della vita, disperata e sarcastica. Cesare Pavese (1908/1950) è perentorio quando afferma che “la guerra rialza il tono della vita perché organizza la vita interiore di tutti intorno a uno schema d’azione semplicissimo – i due campi – e sottintendendo l’idea della morte sempre pronta fornisce alle azioni più banali un suggello di gravità più che umana”. Blaise Pascal (1623/1662) completa il sintetico “So solo che non so nulla” di Socrate (Atene 469/399 a.C.) con la riflessione: “Io non so chi mi abbia messo al mondo né che cosa siano il mondo o me stesso. Sono in una terribile ignoranza di tutte le cose. Non so cosa siano il mio corpo e i miei sensi, la mia anima e quella parte stessa di me che pensa ciò che io dico, che riflette su tutto e su se stessa e non si conosce più che le altre cose. Non vedo intorno a me che infiniti, che mi imprigionano come un atomo e come un'ombra destinata a durare un attimo senza ritorno. Ciò solo io conosco: che presto dovrò morire; ma quel che più mi è ignoto è questa morte appunto cui non posso sfuggire”. Nel “Trattato sulla natura umana”, il filosofo scozzese David Hume (1711/1776) rileva che “tutto è ignoto, un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio, appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar duello. Intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille”.

Nei discorsi del Buddha (‘il risvegliato’ Siddhartha Gautama, 565/486 a.C.) affiora l’insegnamento che la rettitudine dell’agire porti alla liberazione delle rinascite, per affermare che la vita è vacuità e sofferenza. In molti grandi pensatori, collegati al caleidoscopio della ‘Commedia umana’ di Honorè de Balzac (1799/1850), persiste un fondo di nostalgia per ‘Il Paradiso perduto’ vagheggiato dal poeta inglese John Milton (1608/1674), confermato dalla locuzione di Marcel Proust (Parigi (1871/1922) “I veri paradisi sono i paradisi perduti”. Siamo agitati dal mistero che aleggia dentro e fuori di noi, navighiamo nel turbine di un ciclone che ci porta dove la nostra volontà non può inserirsi. Nel vecchio catechismo cattolico la prima domanda “Chi è Dio?”, in nome del quale si compiono tutte le efferatezze, dà risposte che sembrano certezze. Il male è una pulsione che spinge l'essere umano ad interrogarsi, da Caino in poi.

Il persistente senso distruttivo della razza esigerebbe un responso tentato dalla filosofia e dalla religiosità; nelle tradizioni mitologiche di tutto il mondo esiste una netta contrapposizione tra divinità benevole e maligne: “Così, per gli egiziani Osiride si contrappone al dio del male Seth, per il parsismo Ahriman a Mazda, per gli scandinavi e i germani Loki a Thor”. È comunque nell'antica Grecia, con le definizioni che ne hanno dato Socrate e gli Stoici, che ha avuto origine una vera e propria indagine sull’origine del male. Al di là dell’azione istintiva – animalesca – il comportamento umano ha a disposizione la scelta, il ‘libero arbitrio’, il cui concetto fomentò una serie di diatribe dal IV al XVI secolo tra Girolamo e Agostino, tra Lutero e Calvino: il principio non può essere accettato poiché troppe incognite circondano e condizionano la volontà. Il concetto della scelta del padre della Chiesa Agostino (354/430), l’aut-aut del danese Soren Kierkegaard (1813/1855, ideologo dell’esistenzialismo), sottolineano la possibilità di autogestione ma nello stesso tempo suggeriscono uno splendido abbandono al fatalismo.

LANGHE
Mezzo secolo fa, con due vecchissimi motorini rossi Guzzi Trotter di 40 cc. ricuperati dalle discariche e restaurati con molto tempo e fatica, insieme a mia moglie siamo partiti alla scoperta delle Langhe partendo dalla Liguria già allora cementificata. I motorini - aiutati dai pedali - non superavano i 30 kmh. in pianura ma era un piacere viaggiare su strade ancora poco battute e assaporare la libertà di quei siti come le sensazioni espresse da Kerouac nel libro Sulla strada. Quando ci siamo affacciati al paesaggio, dopo diverse soste per problemi di superamento dei dislivelli, siamo rimasti affascinati dalle alture dolci e degradanti in un verde intenso. Non era ancora il tempo dei pirati della strada e quindi costeggiando il bordo delle statali il pericolo di essere tranciati era minimo. Abbiamo girato mezzo mondo approdando a Buenos Aires, New York, Cape Canaveral, Medio Oriente, Spagna, Turchia, Grecia. Però quel fazzoletto di terra italica ci ha lasciato dentro il rimpianto di chi non è più giovane e sa di non poter rifare il cammino di tanti anni fa.
Il gruppo di colline piemontesi tra il Tanaro e la Bormida costituiti da terreni adatti alla coltivazione dei vitigni è costellato da pittoreschi paesini e dai ruderi di vecchi manieri dislocati in cima alle alture. Perciò ricordo ancora adesso, dopo molti anni, i dolci saliscendi che permettono di affacciarsi su paesaggi sempre nuovi. Può darsi che anche quel territorio sia stato manomesso dalla frenesia del cambiamento: la società agricola si sarà comunque modificata sulla spinta del cosiddetto progresso e quindi il mondo dei due piemontesi ha inevitabilmente assunto nuove prospettive e nuove caratteristiche.
Continuano però le tradizioni della produzione vinicola e quella dei Presepi: infatti, oltre alla rievocazione storica con oltre 100 figuranti in costume, si disseminano nel territorio una serie di iniziative che rievocano il clima natalizio sullo sfondo delle case di pietra, delle cascine, dei mulini, dei castelli diroccati, delle botteghe che mantengono le antiche costumanze. Il paese di Mombaldone, citato nel volumetto I borghi più belli d'Italia, è ancora cinto dalle mura originarie; la dinastia dei Marchesi del Carretto ricorda Ilaria Del Carretto – morta di parto a 19 anni – sposa del Signore di Lucca, nel cui Duomo è tuttora conservata la statua sepolcrale scolpita da Jacopo della Quercia.

Oltre alla terra d'origine ambedue gli scrittori sono accomunati dall'attività di traduttori dall'inglese (Lewis, Hemingway, Lee Masters, Anderson, Melville, Joyce, Don Passos, Steinbeck, Defoe, Dickens, Faulkner), un lavoro che li soddisfaceva pienamente non solo per la perfetta conoscenza della lingua ma anche per le loro attitudini letterarie. La differenza sostanziale tra i due è che mentre Pavese, malgrado tutto, fu un uomo pubblico Fenoglio rimase attecchito alle sue origini paesane.
CESARE PAVESE (nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, morto suicida nel 1950 a Torino)
Di estrazione contadina, ricevette dalla madre una educazione austera intrisa di nostalgia per le origini malgrado più tardi avrebbe scritto: "La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito ... ma la vita, la vera vita moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare)". In questa affermazione si evidenzia la tribolazione e la timidezza di un uomo che per l'intera vita soffrì di quelle irresolutezze che lo avrebbero portato alla fine tragica.

A Torino, pubblicò la prima raccolta di versi, Lavorare stanca quasi ignorata dalla critica e collaborò con l'editore Einaudi. Alla fine della guerra si iscrisse al P.C.I. e pubblicò sul quotidiano l'Unità I dialoghi col compagno. Esordì con i romanzi Il carcere e Paesi tuoi, con il sottofondo della solitudine. Spesso ribadisce i temi della campagna vissuta come infanzia innocente pur arricchendole con problematiche ormai adulte, ovvero il contrasto città-campagna e dell'incomunicabilità metropolitana. Il riconoscimento ufficiale della critica giunse con il premio Strega del 1950 ma la depressione, dovuta soprattutto alla fragilità psicologica ed ai difficili rapporti umani, lo convinse che l'unica soluzione fosse il suicidio. Affermò: "Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino. Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti 'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là".

Eppure ebbe una vita intensa, il lavoro editoriale, una vasta produzione letteraria, le amicizie durature con Nuto (Pinolo Scaglione), Tullio Pinelli (al quale inviò una lettera d’addio prima del suicidio) e molti intellettuali. Il diario pregno di esperienze, edito postumo Mestiere di vivere – registra la progressione della personale ricerca umana, iniziato quando fu condannato al confino per un anno a Brancaleone Calabro per avere protetto una donna iscritta al partito comunista – ed il libro di Davide Lajolo Il vizio assurdo (biografia e ritratto psicologico di Pavese) sono essenziali per comprendere l'angoscia esistenziale di una vita dominata dall'incertezza e dal ritegno nei confronti delle donne per le quali nutrì sentimenti contrastanti. Ho conosciuto i suoi lavori nel dopoguerra all'età di venti anni e subito sono rimasto affascinato dallo stile sobrio ed essenziale, carico tuttavia di significati pregnanti. Paragrafi sintetici nei quali ogni vocabolo ne rievoca l'accezione completa. I Dialoghi con Leucò è l'opera che meglio descrive lo sforzo di ricostruire la dimensione interiore ribadendo con note autobiografiche le radici alla propria terra come nei libri La casa in collina e La luna e i falò. L'osservazione della realtà di un mondo piccolo interagisce con problematiche più ampie e le opere postume definiscono meglio la complessa figura intellettuale dello scrittore piemontese.

Alle spalle dell'uomo adulto rimanevano incise le traversie familiari, tre fratelli minori morti prematuramente, la madre di salute cagionevole ed il padre scomparso nel 1914 per un cancro al cervello. In questa situazione tragica il bambino fu allontanato momentaneamente dalla famiglia per poi rientrare sotto la cappa rigorosa della mamma Consolina che ebbe l'incombenza di sostituirsi alla figura del marito: per problemi economici decise di vendere la cascina della famiglia e di trasferirsi in una frazione di Torino. Durante gli anni di liceo, assorbì la lezione decadente di Guido da Verona e Gabriele D'Annunzio fino alla scoperta di Vittorio Alfieri. Si ammalò di pleurite, fu profondamente scosso dal suicidio di un compagno ("Sono andato una sera di dicembre per una stradina di campagna deserta col tumulto in cuore. Avevo con me una rivoltella") e all'Università di Torino si appassionò allo studio della lingua inglese iniziando da Walt Whitman e proseguendo con lo slang: "Credo che lo slang non è una lingua distinta dall'inglese... voglio dire, non c'è una linea che possa essere tracciata tra le parole inglesi e quelle continuamente formate dalla gente che vive".

Nel frattempo le sue conoscenze si allargarono: Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi; ciò gli permise di frequentare gli ambienti intellettuali dell'epoca e di iniziare, professionalmente, l'attività di traduttore con Moby Dick di Herman Melville per 1.000 lire, un introito al quale si assommarono lezioni private e alcune supplenze nelle scuole pubbliche. La sorella Maria (con la quale convisse dopo la morte della madre fino al momento fatale) lo convinse ad iscriversi al partito fascista per facilitargli l'inserimento nei servizi statali; più tardi, dal carcere romano di Regina Coeli, le scrisse: "Per seguire i vostri consigli ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".

Nel 1933 tradusse Dos Passos e James Joyce, incontrò Tina la "donna dalla voce rauca, una voce di tempi perduti", fronteggiando ancora una volta quel disagio nei rapporti con l'altro sesso che lo avrebbe perseguitato per tutta la vita fino all'ultimo incontro con l'americana che, in parte, fu la causa dell'estrema decisione di ingerire numerose pastiglie di sonnifero. Come la canzone "Se avessi 1.000 lire al mese", accettò per quella cifra l'impiego stabile presso la Casa Editrice di Giulio Einaudi fondata in quel periodo politicamente burrascoso curando alcune collane e proseguendo l'attività di traduttore. Una personalità particolare per l'instabile equilibrio tra il disagio di rimanere solo e la voglia di vivere a contatto con la gente, una dicotomia strana in un uomo intelligente e culturalmente preparato. Probabilmente alcune esperienze negative della gioventù - morti due fratellini e una sorellina, la scomparsa del padre, il forte carattere della madre, il suicidio di un compagno: "Sono andato una sera di dicembre per una stradicciola di campagna tutta deserta, con tumulto nel cuore. Avevo dietro me una rivoltella" - hanno influito su un carattere fondamentalmente introverso.

Accusato di antifascismo per avere avuto contatti con Tina iscritta al P.C.I. clandestino, fu incarcerato a Torino, a Roma e quindi spedito al confino a Brancaleone Calabro. Un guazzabuglio di circostanze lo aveva indicato come simpatizzante del partito comunista, segnalato automaticamente alle autorità e subito condannato. Non furono giorni infelici perché gli permise di confrontarsi con un ambiente completamente diverso al quale era abituato. Scrisse: "Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni ... esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo una inutile castità". Con la domanda di grazia inoltrata, ottenne il biennio di condono che gli permise di tornare a Torino dopo un anno di lontananza.

Nel 1940 Mussolini, alla spasmodica ricerca di un posto al sole, dichiarò guerra a mezzo mondo portando l'Italia a precipitare nel baratro. Pavese ruzzolò nell'ennesima avventura sentimentale con Fernanda Pivano nata a Genova nel 1917, anche lei innamorata della letteratura americana e sua allieva al liceo. Per questo rapporto che avrebbe dovuto concludersi con il matrimonio da lei rifiutato, lo scrittore Davide Lajolo commentò: "Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente ed è in lei che Pavese tornò a sperare per avere una casa ed un amore". Gli arrivò anche la cartolina di precetto che riuscì ad eludere per la forma d'asma di origine nervosa che lo costrinse a sei mesi di internamento nell'ospedale militare di Rivoli. Nel 1943 Torino venne occupata dalle truppe tedesche in contemporanea alle prime formazioni delle bande partigiane. Lui si rifugiò con la so­rella in un piccolo centro del Monferrato ma dovette rimanere sempre all'erta per i frequenti rastrellamenti e per questa ragio­ne chiese rifugio ad un convitto di Casale; lì dava lezioni e ripetizioni agli allievi e scriveva. Dopo la liberazione si accorse del­la scomparsa di molti amici assassinati o morti al fronte che lo avevano accompagnato nell'itinerario personale ed intellettuale.

Iscrittosi al P.C.I. e collaborando al quotidiano L'Unità conobbe Italo Calvino presso la Casa Einaudi dalla quale ebbe l'incarico di ristrutturare la sede romana dove lavorava Bianca Garufi, un'altra passione che gli farà scrivere: "Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma, bruciato quattro donne ... Hai la forza, hai il genio, hai da fare ma sei solo; quest'anno hai sfiorato due volte il suicidio". Una costante della vita che lo ossessionerà fino alla camera d'albergo dove compì l'atto finale: "Tutto questo fa schifo. Non parole, Un gesto. Non scriverò più". Chissà se in quel momento fatale ripensò alle parole: "Sei felice? Si, sei felice". Se avesse avuto accanto un cagnetto come nel film 'Umberto D' di Vittorio De Sica, all'ultimo momento si sarebbe riti­rato in una dignitosa solitudine pur nella consapevolezza di un futuro sempre sul baratro dell'incertezza?

Ebbe la soddisfazione di vedere i suoi lavori nelle librerie – saggi, poesie, romanzi – e di essere notato dalla critica. Uno sti­molo che pochi anni prima del suicidio lo indusse a scrivere molto, ossessivamente, fino a comporre l'ultima opera data alle stampe 'La luna e i falò'. Importantissimo il vincolo con l'editore Einaudi che gli pubblicò i manoscritti seguendo passo dopo passo la sua avventura letteraria ed intellettuale. Un rapporto che gli permise di stabilire il contatto con il vasto pubblico dei lettori che, anche in tempi di poca affezione alla lettura come quelli odierni, continua ad in­teressare per i temi rimasti attuali come angoscia, alienazione e nevrosi collettiva. Certamente la percentuale di paura nella so­cietà è molto accresciuta in questi ultimi decenni per il disgregamento della famiglia, per le incertezze globali, per la mancan­za totale di bitte alle quali agganciarsi. Si può dunque capire meglio il disagio di un uomo come Pavese.

In occasione di una trasferta a Roma, pochi mesi prima del suicidio, conobbe l'americana Constance Dowling (alla quale dedicò i versi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) ancora una volta ripiomba nell'innamoramento che per lui significava una pausa dei tormenti giornalieri. Quando la donna riattraver­sò l'oceano, Pavese si sentì abbandonato per l'ennesima volta e neppure il 'Premio Strega' per la costante dedizione al lavoro di scrittore lo aiutò ad allontanarsi temporaneamente dallo squallore di una anonima camera d'albergo. Un ultimo sussulto vi­tale lo ebbe per una ragazza di diciotto anni, non sufficiente a calmare il tumulto interiore. Le scrisse avvilito: "Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?" Lo scrittore non era certamente l'uomo ideale per at­trarre una adolescente, fu forse un amore mercenario? A prescindere da questi episodi sentimentali, Pavese fu un uomo profi­cuo, la cui cultura spaziava dai vari ismi alla politica, dalla religione alla psicologia. Tuttavia non riuscì a sintetizzare i concetti e farne sicuri basamenti per sicure concretezze, una conseguenza della sofferenza psichica sommata anno dopo anno in un terreno predisposto: "Ho imparato a scrivere, non a vivere perché solo quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno".

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Lavorare stanca (poesie 1943)
Notte di festa (racconti 1953)
Il carcere (1949 - comprende La casa in collina ovvero Prima che il gallo canti)
La bella estate (1949 - comprende Il diavolo sulle colline e Tra donne sole)
Feria d'agosto (racconti 1946)
Dialoghi con Leucò (racconti 1947)
Il compagno (1947)
La luna e i falò (1950)
Il mestiere di vivere. Diario 1935/1950 (1952)
Tutti i romanzi Einaudi 2000 (Pléiade)
Tutti i racconti Einaudi 2006 (Pléiade)

FILMOGRAFIA
Cesare Pavese, al contrario di molti altri scrittori, ha avuto la buona sorte di essere tradotto in immagini cinematografiche con un ottimo riscontro critico.
Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni, con Eleonora Rossi Drago, Valentina Cortese. La direttrice di un atelier di moda torinese viene coinvolta in un intrigo di amicizie e amori con altre donne e due uomini. Dal racconto Tra donne sole (in La bella estate, 1949) di Pavese, sceneggiato da Suso Cecchi D'Amico e Alba De Céspedes. Una galleria di caratteri femminili sullo sfondo della Torino borghese, raccontati con intenso realismo psicologico. Leone d'argento a Venezia. Nastri d'argento a Cortese e Antonioni.
Il compagno (1999) di Francesco Maselli. Nel 1939 dalle colline torinesi l’antifascista Pablo va a Roma per prendere parte alla lotta politica con operai comunisti. Liberamente tratto dal roman­zo omonimo (1947) di Pavese, prodotto per la RAI, è un film figurativamente elegante sul teatro po­vero del varietà, congeniale al decadentismo di Pavese.
Dalla nube alla Resistenza di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dai Dialoghi con Leucò (1947) e La luna e i falò (1950) di Pavese si evidenza la parabola dell'umanità dal mito alla storia in due parti: i dialoghi degli uomini con gli dei che si sono ritirati sull'Olimpo e la ricerca di un uomo detto il Bastardo che torna dall'America a S. Stefano Belbo rievocando la storia sotto il fascismo. Morale: la Resistenza è la ribellione dell'uomo contro il potere e l'intolleranza degli dei.
Il diavolo sulle colline (1985) di Vittorio Cottafavi. Da La bella estate (1949), il film racconta di tre amici influenzati negativamente di un compagno ricco e corrotto. Film TV di basso costo e raffinata eleganza che restituisce le atmosfere tipiche di Pavese. Ottima la rievocazione degli anni Trenta nella Langa.
Quei loro incontri (2006) di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet. Dai Dialoghi con Leucò (1947) è stato tratto questo film sperimentale dallo spettacolo teatrale rappresentato in Toscana. Gli dèi greci desiderano conoscere gli uomini e fare le loro esperienze, mentre gli uomini sono insoddi­sfatti della realtà e hanno perso il loro rispetto per gli dèi (il testo è recitato da non-attori).
BEPPE FENOGLIO (Alba 1922 – Torino 1963)
"Nella città natale, capitale delle Langhe, passò quasi tutta la vita. Partecipò alla resistenza ar­mata. Al mondo contadino e partigiano di quelle terre ispirò la sua opera narrativa: da I ventitré giorni della città di Alba a La malora, da Primavera di bellezza, ambientato in parte a Roma, ai postumi Un giorno di fuoco, Una questione privata, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale. Mise nei suoi libri la conoscenza della letteratura anglosas­sone (Shakespeare e Marlowe, Coleridge e Th. E. Lawrence) e la capacità di analisi di una condi­zione umana emblematica, dominata dalla tragica necessità della violenza. Nello sforzo di sottrarsi ai moduli letterari del neorealismo, elaborò uno stile di intensa espressività, grazie alla mescolanza di diversi registri linguistici e alla inserzione (soprattutto nelle ultime opere) di lunghi brani in un inglese personalmente rivissuto. La sua pagina, costruita attraverso un inesausto travaglio forma­le, attinge sovente a un respiro epico".

È la voce dedicata allo scrittore dall'Enciclopedia della Letteratura Garzanti ristampata nel 1991, sintesi di una vita. Nonostante la modesta condizione sociale i genitori arrivarono a gestire faticosamente una macelle­ria e – in seguito ai consigli degli insegnanti che apprezzavano l’intelligenza del ragazzo – furono indotti a fargli proseguire gli studi. Frequentando il liceo, Fenoglio si appassionò alla lingua e quindi alla letteratura inglese/ameri­cana incoraggiato dai professori di filosofia ed italiano, ambedue antifascisti e partigiani. Nel 1943 fu obbligato a frequentare un corso per allievi ufficiali; trasferito a Roma, riuscirà a ritornare ad Alba dopo l'8 settembre dove si arruolò tra i partigiani combattenti sulle colline; mise però a repentaglio i genitori che furono arrestati e poi fortunatamente rilasciati senza conseguenze.

Quando nel 2000 il regista Guido Chiesa realizzò il film omonimo tratto dal romanzo 'Il parti­giano Johnny' dichiarò: "Sono rimasto colpito dalla capacità di Fenoglio di raccontare la Resisten­za con tono epico, assolutamente anti-retorico. Lo sguardo dello scrittore, che si esprime attraverso quello dello studente Johnny, è ironico e critico. Il protagonista della vicenda non tace gli errori dei partigiani, non è dogmatico verso i fascisti, nei confronti dei quali riesce a provare un senti­mento di pietas pur continuando ad odiarli. Durante quel periodo la ragione e il torto, la democra­zia e la violenza sono due mondi ben separati e, attraverso il protagonista, Fenoglio afferma la ne­cessità di schierarsi, di prendere posizione, di compromettersi. Ho individuato una precisa cifra sti­listica, quella della povertà e della miseria: le condizioni di vita dei contadini dell'epoca erano molto misere, quella dei partigiani ancora più dure".

Alba, occupata dai nazi-fascisti, fu liberata dai partigiani divenendo un simbolo ed uno stimolo per l’affrancamento dell'intero territorio nazionale fino al contrattacco delle forze nemiche nel 1944, alle quali il C.N.L. non riuscì a resistere malgrado gli sforzi compiuti: la città, ha vissuto l'epopea della lotta liberandosi per un mese e ponendo le premesse - come in altre zone - per il referendum (monarchia o repubblica) del dopoguerra. Il Piemonte intero fu l'emblema della resistenza armata con sei medaglie d'oro al valore militare: Torino pagò il tributo con impiccagioni, fucilazioni, arre­sti, deportazioni, Cuneo con 2.000 caduti e 1.000 assassinati, la Valsesia con centinaia di persone trucidate per rappresaglia, Boves sottoposta a cannoneggiamenti e rastrellamenti sanguinosi, Biella con i continui sabotaggi e migliaia di ebrei sottratti alla deportazione. Naturalmente al termine della pazzia collettiva, lo strascico degli odi e delle ritorsioni continuò: vendette personali, antiche rivalità, appartenenze a dottrine diverse, ogni piccolo astio finora rimu­ginato in segreto, grazie all’impunità del periodo in preda all’anarchia, ognuno provvide a farsi giu­stizia per conto suo.

Era anche l’epoca del ritorno a casa dei reduci imbestialiti per il coinvolgimento non voluto nel conflitto, magari non trovando il desco familiare per la scomparsa di madri, padri, figli, mogli, fi­danzate. Il 9 Maggio 1936, XIV dell’Era Fascista, il Duce aveva fatto dal balcone di Piazza Venezia un di­scorso altisonante che non poteva non coinvolgere emotivamente una folla disposta ad essere con­vinta: “Ufficiali! Sottufficiali! Gregari di tutte le forze armate dello Stato in Africa e in Italia! Ca­micie nere della Rivoluzione! Italiani e italiane in Patria e nel mondo: ascoltate!” ... “Il popolo ita­liano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiun­que con le sue armi. In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”.

Improvvisamente la “Gioventù del Littorio”, i “Balilla”, gli “Avanguardisti”, la “Milizia”, le “Camicie nere” e gli “Arditi” (reparti d’assalto con il pugnale tra i denti, le bombe a mano e la fia­schetta del cognac), diventarono obsoleti e vietati. Come gli scalpellini dell’Antico Egitto scalfirono dai bassorilievi i cartigli dei Faraoni o dei potenti in disgrazia, così gli scalpellini di quegli anni rup­pero e deturparono tutto quanto ricordava il Ventennio, dagli innumerevoli Fasci in pietra ai busti in bronzo del Duce, alle scritte sui muri: “Me ne frego!”, “Se avanzo seguitemi, se indietreggio ucci­detemi!”, siglate dalla famigliare "M”. I sussulti del vecchio regime nel periodo della Repubblica Sociale Italiana (600 giorni) fomenta­rono ulteriori tensioni, incattivite dalla consapevolezza di fronteggiarsi fra compatrioti. Episodi odiosi nel conflitto tra repubblichini e partigiani ritardarono e complicarono un chiarimento definiti­vo perché caricati dal timore e dalla vendetta. Sobillata dalle reminiscenze di una storia in divenire, sballottata da un giornalismo improvvisamente senza bavaglio ma chiaramente indottrinato dalle nuove fazioni politiche, la gente faticava a distinguere le nuove maschere delle parti in lotta per il potere.

Il 24 giugno 1943, un mese prima del Gran Consiglio e tre mesi prima della neonata Repubblica Sociale Italiana (“R.S.I.”), Mussolini ordinava: “Non appena il nemico tenterà di sbarcare sia con­gelato su quella linea che i marinai chiamano bagnasciuga (battigia), la linea della sabbia dove l’acqua finisce e comincia la terra. Il dovere dei fascisti è di dare questa certezza dovuta a una de­cisione ferrea, incrollabile, granitica”. Più tardi, esiliato a Salò in mano al comando tedesco, il dit­tatore confesserà: “Sono finito, la mia stella è tramontata. Lavoro e faccio sforzi, pur sapendo che tutto non è che una farsa... Aspetto la fine della tragedia e, stranamente distaccato da tutto, non mi sento più attore; mi sento come l’ultimo spettatore. Anche la mia voce, la sento come riprodotta...” Il suo carisma ormai è spento come spenta è la luce dello studio a Palazzo Venezia, solitamente accesa per far sapere agli italiani che il “Dux” vigila e lavora.

Più difficile la suddivisione delle coscienze, combattute da pulsioni contrarie, da sentimenti con­trapposti, da speranze represse dall’incerta quotidianità. Le situazioni personali di molti coinvolti in fatti gravi o insistenti dicerie su partecipazioni alle esecrate coercizioni del regime, contribuivano a creare nell’opinione pubblica una indeterminatezza di giudizio. L’ambiguità del momento di passag­gio tra una dittatura e l’embrione di una democrazia, innescava reazioni che spesso demotivavano ogni ideale di giustizia. La maggioranza della popolazione – intenta a ricuperare le forze fisiche e morali dopo tanti anni di privazioni, a ricostituire il nucleo della famiglia ed a reinserirsi nel clima sufficientemente sereno del tempo di pace – sentiva comunque la pressione della lotta e partecipava con passione al giudizio delle coscienze.

La Liberazione fece perdere alle facce della gente l’espressione luttuosa. Pur nell’angustia dei problemi non più coperti dal roboante rullo della propaganda, pur nella carenza di abitazioni, di strutture pubbliche e di organizzazione programmata, pur nella decimazione del tessuto sociale per lo smembramento delle famiglie, i sopravvissuti sentivano scorrere la linfa nuova di tutte le speranze. Finito il periodo delle lampade oscurate, dei vetri istoriati di strisce di carta incollata per preservarli dallo spostamento d’aria delle bombe, ci accorgemmo del cambiamento sostanziale dai nuovi comportamenti e dal clima reso decisamente più sereno dalla mancanza del miagolio cupo delle si­rene d’allarme, del rombo degli sciami di bombardieri, del fragore delle esplosioni: un incubo la­sciato alle spalle come tante altre mestizie meno incombenti ma che, nella loro molteplicità, aveva­no rappresentato un pesante fardello per tutti.

Dice Fenoglio: “Lo spettacolo dell’8 settembre locale, la resa di una caserma con dentro un intero reggimento davanti a due autoblindo tedesche not entirely manned, la deportazione in vagoni piombati avevano convinto tutti, familiari ed hangers-on, che Johnny non sarebbe mai tornato”. Nel 1944 si aggregò alle prime formazioni partigiane partecipando al combattimento di Carrù e all’effimera Repubblica di Alba durata pochi giorni. Già da adolescente rivelò la sua passione per la lettura incrementando così la conoscenza dell’inglese che gli permetterà da adulto di diventare come Pavese un ottimo traduttore di testi classici. Al liceo ebbe insegnanti di valore (uno impiccato dai tedeschi, l’altro internato in un campo di concentramento) che lo incoraggiarono ad iscriversi alla facoltà torinese di Lettere, studi interrotti nel 1943 dalla chiamata alle armi.

Nel dopoguerra decise di dedicarsi completamente alla scrittura, con dispiacere dei genitori commercianti, iniziando un percorso di vita che lo avrebbe soddisfatto. Come tutti i narratori esordienti, i primi lavori furono valutati da un lettore professionista, in questo caso da Italo Calvino per la Casa editrice Einaudi ma anche lui dovette passare sotto le forche caudine dello scrittore Elio Vittorini che diede un primo parere sfavorevole anche se successivamente gli fece pubblicare “I ventitre giorni della città di Alba” ed il romanzo breve “La malora”. Fenoglio ritornò stabilmente ad Alba dove rimarrà attaccato tenacemente per tutta la vita. Un carattere ostinato e ritroso che riconosce sé stesso solamente nel luogo natio. Si impiegò presso una ditta vinicola, un lavoro che non vorrà mai abbandonare perché "se andassi da un'altra parte non troverei più il tempo per scrivere", passione nata nel dopoguerra.

Nel 1960 sposa Luciana e l'anno dopo nasce la figlia; la sua vita si svolge dunque tra gli affetti famigliari, l'ufficio e la scrittura. Anche lui come Pavese si rivolge ad un editore prestigioso come Einaudi ricevendo i primi rifiuti di pubblicazione fino a quando Vittorini gli fece pubblicare 'I ventitre giorni della città di Alba' 3. Il romanzo breve 'La malora' incentrato sull'ambiente delle Langhe uscì nel 1954 con alcune riserve arrivate ancora una volta dal lettore Vittorini: questi continui distinguo convinsero Fenoglio a cambiare editore, da Einaudi a Garzanti, che gli pubblicò nel 1960 il romanzo 'Primavera di bellezza' (Premio Prato). Nel 1962 a Bra gli fu diagnosticata una forma di tubercolosi, primi sintomi del cancro ai polmoni dovuto soprattutto a causa delle sigarette che aggravarono una forma asmatica della quale soffriva da anni. Morì nell’amata Alba e lì fu sepolto con tiro civile. Come spesso succede il successo pubblico arrivò allo scrittore piemontese con la Laurea ad honorem dell’Università di Torino ed i lavori pubblicati postumi: "Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano".

“Pubblicato per la prima volta nel 1954 nella collana i Gettoni, La malora è certamente l’opera di Fenoglio in cui la tematica della vita contadina sulle Langhe campeggia in tutta pienezza, sia nei motivi che nei luoghi, pur non essendo nuovi all’autore poiché già trattata in Un giorno di fuoco e nella seconda parte de I ventitre giorni della città di Alba. Il libro narra la storia di Agostino e attraverso gli occhi dello stesso, la vicenda della sua famiglia, i Braida, poveri contadini delle Langhe d'inizio secolo, la cui vita è segnata dalla fame, dal duro lavoro sulla terra avara e dalla malora che, come un ombra funesta da cui e impossibile liberarsi, guida il destino dei personaggi del romanzo fenogliano. Immerso in avvenimenti tragici, quali la morte del padre, l'inutile lotta della famiglia di Tobia per emergere dalla propria condizione, la malattia del fratello chiuso in seminario, Agostino vive gli anni della giovinezza chinato di fronte alla propria sorte. L’unico barlume di speranza, l’amore per la servetta Fede viene annullato senza possibilità di opporsi al contratto di matrimonio fatto dai genitori della ragazza. L’unico sogno di Agostino rimane quello di tornare a lavorare la terra che era stata di suo padre, desiderio che in ultimo verrà realizzato anche se il giovane non potrà più contare sulla presenza materna. La malora è il motore primario di tutta la vicenda, i personaggi, costantemente chiusi in una solitaria sopportazione, paiono non avere voce in capitolo. La fame, la miseria, l'avidità, i lutti, le avversità atmosferiche e la sterilità del terreno decidono per loro. Gli abitanti delle Langhe si muovono in un mondo chiuso, un microcosmo i cui orizzonti sono, prima ancora di essere chiusi dalle colline, annullati dalla cieca fatica, dal lavoro che, inizialmente principio fondante di civiltà, è divenuto veicolo d'annullamento di sé. La “roba” di verghiana memoria diviene allora stimolo principale delle azioni, facendosi, in quanto desiderio sempre presente ma destinato a rimanere inappagato, mezzo di svilimento al pari del lavoro. E’ questo desiderio a spingere gli uomini a spezzarsi la schiena lavorando sui campi e a mangiare sempre meno la sera. A questo, ancora, si aggrappano Tobia ed il padre di Agostino come sospesi nel vuoto e su quel Tanaro in cui molti uomini della razza langarola sono andati a porre fine ai propri giorni (si ricordi che anche in questo romanzo è presente il suicidio, quello di Costantino del Boscaccio trovato impiccato dallo stesso Agostino). Nel duro destino e nella sua cieca presenza pare ritrovarsi quanto Sciascia diceva a proposito degli zolfatari siciliani: «quando dalla notte della zolfara ascendevano all'incredibile giorno della domenica, le case nel sole o la pioggia che batteva sui tetti, non potevano che rifiutarlo, cercare nel vino un diverso modo di sprofondare nella notte, senza pensiero, senza sentimento del mondo». Se si mette a confronto La malora con il racconto Un giorno di fuoco, si può notare come, mentre in quest'ultimo la storia della Langa è tutta vissuta dall’esterno – attraverso il racconto della ribellione ad una sgradita condizione esistenziale – ne La malora le dinamiche sociali e le ragioni dell'amore per la propria terra sono investigate dall'interno. Grande merito di Fenoglio è la capacità di portare sulla pagina la brutalità di quel mondo, rivivendoli nel momento stesso della scrittura l'autore pare volerli raggiungere fisicamente fino a mettersi in contatto con la dimensione esistenziale del lavoro come annullamento di sé. Leggendo il romanzo si scopre costantemente, da parte dell’autore, l’ansia di essere elemento presente del mondo descritto: la lingua utilizzata e i continui flashback sono strumenti letterari di cui Fenoglio si serve proprio a questo scopo. Nell'utilizzo di termini dialettali e di frasi fatte la memoria dell'autore diviene lingua in grado di creare il mondo narrato, diviene uno specchio perfetto nella propria concisione e nella mancanza pressoché assoluta di orpelli, del carattere degli abitanti di queste terre. Nell’opera pochissime sono le descrizioni di luoghi e persone, è come se non ci fosse il tempo per soffermarsi ad osservarli, pur sentendo di riuscire stranamente a scrutare tutto con gli occhi noncuranti di chi è nato e sempre vissuto tra quella gente, anche di dover, un giorno, fatalmente morirci. Le uniche eccezioni sono significativamente legate alle rare visite di Agostino ad Alba, la città nel cuore delle Langhe dove viene descritto l'impatto con la vita cittadina, con i ragazzi, con gli edifici, con il seminario, con la farmacia del padrone: sono brani godibili ma forse stilisticamente eccessivi (probabilmente Vittorini parlava di essi quando, nella discussa presentazione del libro, faceva riferimento ai pericoli di vacuità insiti nell'utilizzo degli afrodisiaci dialettali) e che paiono quasi stridere, se confrontati con la lucida sintesi che caratterizza il resto del libro. Ma è proprio in questi brani, nel desiderio di fare percepire appieno la descrizione, totalmente filtrata attraverso gli occhi di Agostino, che si avverte l'ansia di Fenoglio di prendere le distanze dalla propria città e di sentirsi, così, solo interprete del mondo contadino”.

Uno strascico molto doloroso del conflitto fu quello dei molti mutilatini, ragazzi feriti gravemente dalle bombe o dalle penne esplosive disseminate ovunque come trappole per topi. Intervenne un prete coraggioso e caritatevole, Don Carlo Gnocchi (1902/1956), che dopo l’ordinazione a sacerdote nel 1925, seguì l’innata inclinazione verso la gioventù: “Come è bello giocare con la neve pulita e bianca. Anche Gesù gioca volentieri con le anime dei bimbi quando sono bianche e pulite”. Ebbe sempre un ottimo rapporto con i parrocchiani e l’attività di educatore convinse il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster (1880/1954, al termine della II Guerra Mondiale svolse un ruolo di mediatore tra fascisti, tedeschi e partigiani), a nominarlo assistente spirituale dell’Istituto Gonzaga e dell’Università Cattolica, strutture della Diocesi milanese.

L’esperienza più gravosa fu quando partì, come cappellano volontario degli alpini, per il fronte greco-albanese e, successivamente, per il fronte russo. Scrisse a questo proposito: “In quei giorni fatali posso dire di avere visto finalmente l’uomo nudo, completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balia degli istinti più elementari emersi dalle profondità dell’essere”. Al ritorno consegnò a molte famiglie disseminate nell’intera penisola, i ricordi dei commilitoni caduti nella grande tragedia, aiutò ebrei e prigionieri alleati; anche per questo venne imprigionato varie volte al carcere milanese di San Vittore, dal quale uscì per intercessione del cardinale Schuster.

Nel dopoguerra maturò in lui l’idea di offrire un aiuto al mondo che aveva sempre amato e frequentato: il dolore innocente come definiva la sofferenza di chi, senza colpe, portava impresse nel corpo e nello spirito ferite indelebili lo indusse ad istituire la Fondazione Pro Juventute dedicata principalmente all’Infanzia Mutilata, con sedi in svariate città italiane. Aprì anche alcuni Centri di rieducazione per bambini affetti da poliomielite. Con queste esperienze alle spalle scrisse “Pedagogia del dolore innocente”. Morì per una diffusa metastasi con le parole “Grazie di tutto”. Nel testamento chiese di offrire le cornee a due giovani ciechi, primo esempio in Italia di donazione degli organi – all’epoca non ancora legalizzata – e lasciò scritto: “Altri potrà servirli meglio che io non abbia saputo fare; nessun altro, forse amarli più che io non abbia fatto”. La Fondazione è stata istituita per curare e riabilitare ragazzi mutilati ma anche portatori di handicap, assistenza ad anziani non autosufficienti e malati oncologici terminali.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
I ventitre giorni della città di Alba (1952)
La malora (1954)
Primavera di bellezza (1959)
Una questione privata - Un giorno di fuoco (1963)
Il partigiano Johnny (1968)
Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (1973)
Opere (edizione critica, Einaudi 1978)

FILMOGRAFIA
Per Fenoglio un solo film tratto dal romanzo omonimo incompiuto, pubblicato postumo nel 1968, più due documentari realizzati dal medesimo regista, autore anche di Il caso Martello, Babylon, Non mi basta mai, Alice in paradiso, Lavorare con lentezza.
Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa, ammiratore e studioso dello scrittore al quale ha dedicato anche due documentari (interpretato da Stefano Dionisi selezionato per la somiglianza al giovane Fenoglio) narra dell'universitario che tornato ad Alba dopo l’otto settembre 1943 si unisce alle bande partigiane. Rimanendo disilluso, passa l’inverno del 1944 sui monti prigioniero di neve, sangue, rappresaglie e soprattutto della solitudine che si è scelto. Il film racconta l’angoscia dei rastrellamenti delle milizie fasciste e tedesche. Johnny si ritrova a passare da solo il duro inverno del 1944, scopre la vera ragione di essere partigiano rimanendo sé stesso. In primavera riprende la lotta narrata e lo stile asciutto e severo sottolinea il conflitto per la sopravvivenza sui monti tra pioggia, neve, fango, agguati, fughe, sofferenze, fango, sangue, paura, dubbi, spie. La Resistenza partigiana è trattata dal regista come una brutta guerra qualunque, con eroi ed antieroi, con luci ed ombre, con male e bene insieme, al di sopra delle parti implicate. Partendo dalla lezione di Pavese e da quella americana, i racconti e romanzi di Fenoglio raggiungono una propria rilevante individualità poetica nel rendere con un realismo asciutto intriso di elementi dialettali le contraddizioni fra un ordine di cose costruito su l'iniquità, l'ipocrisia, il male e un mondo ricondotto o da ricondurre alla libertà, alla giustizia, ad un responsabile senso di solidarietà morale e civile.

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