I ventitre giorni della città di Alba Analisi del testo di Anna Maria Alessandria
Analisi del testo di Anna Maria Alessandria
Nel 1952 Beppe Fenoglio pubblicò presso l'Editore Einaudi nella collana "I gettoni" la raccolta di racconti, sei dei quali ispirati alla lotta resistenziale in Alba e nelle Langhe, il cui titolo è "I 23 giorni della città di Alba". La vicenda storica dei 23 giorni è il tema del primo racconto, che si può ben considerare l'ouverture della silloge. A questo infatti, per legami impliciti o espliciti, si possono collegare i successivi cinque racconti. Insieme costituiscono il preludio delle opere di più ampio respiro letterario e poetico, che sono "Una questione privata" e "Il partigiano Johnny".
La raccolta fu brevemente recensita sull'Unità del 29 ottobre 1952 con una sommaria e severa stroncatura di carattere moralistico, che rifiutava sia il linguaggio sia le situazioni presentate, soffermandosi in particolare sulla sequenza cittadina della sfilata dei partigiani in Via Maestra del primo racconto.
Fenoglio non aveva scelto di scrivere un testo celebrativo, con l'obiettivo di esaltare la dimensione eroica della lotta partigiana, ma di condensare in rapide e apparentemente oggettive sequenze, secondo una poetica della brevitas, una vicenda drammatica di nobiltà ideale e di sconfitta.
Infatti il primo racconto si presenta come una cronaca che registra linearmente la successione dei fatti, dei fatti veri nella loro nudità ed essenzialità, senza indugi, senza fronzoli, in una prosa tutta fatti e cose.
Ma la successione è governata da una sapiente regia, che è abile orchestrazione letteraria.
Le sequenze, due ampie sequenze, hanno un'evidenza cinematografica; si inserisce fra queste un breve, drammatico intermezzo di paura, presto fugata dall'intervento dei partigiani contro un maldestro tentativo di rientro nella città dei fascisti.
Alle sequenze corrispondono due spazi: il centro della città di Alba e la campagna con le colline circostanti, delimitate dal fiume. Si intravede nella struttura del racconto una sorta di legge delle sequenze opposte, come in alcuni racconti successivi, per esempio nel racconto "L'andata".
Così inizia il racconto: "Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944".
"Ai primi di ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (.) fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l'incolumità dell'esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò".
Il suono delle campane diede alla città il segnale. Cittadini e partigiani vissero ore di euforia, liberi dalla tensione: i fascisti erano ormai al di là del Tanaro.
"Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali".
Fenoglio descrive la pittoresca e scomposta sfilata dei partigiani e il loro diverso affaccendarsi per la città (negli studi fotografici, nei postriboli, ai distributori di carburante) con rapidi, vividi tratti, con accenti ironici, con l'umorismo immediato dell'osservatore arguto, sottilmente corrosivo di ogni forma di esibizione di potere (si noti la scena del balcone del municipio, gremito di capi, che si affacciano sulla piazza vuota).
Il critico Giorgio Barberi Squarotti individua in questa rappresentazione l'indignazione e la disperazione ancora vive nell'autore per la perdita della città 23 giorni dopo la liberazione1.
Si individua nella rappresentazione dei partigiani nel centro-città l'ironia tragica, che ha la sua verifica poche pagine dopo, in cui Fenoglio ricorda che nel giorno della battaglia un migliaio di partigiani si godeva la fiera autunnale sulla piazza di Dogliani. A combattere erano solo duecento.
Fenoglio assume il punto di vista dell'osservatore dotato di humour e di realismo, consapevole dell'inesperienza, della disorganizzazione e dell'incompetenza amministrativa dei gruppi partigiani, di cui non manca di evidenziare il valore e la sofferenza2. Infatti, non a caso, la descrizione della "selvaggia parata" è preceduta dal flash su quell'uno o due partigiani "con le mani legate col fildiferro e il muso macellato", rastrellati ripetutamente sulla Langa dal II Reggimento Cacciatori degli Appennini.
La seconda sequenza è la "battaglia di Alba" con il rapido epilogo della ritirata dei partigiani sconfitti. Allo spazio circoscritto della città si sostituisce la campagna; una campagna fradicia di pioggia, fangosa, delimitata dal fiume paurosamente gonfio; è uno scenario naturale tragico e ostile.
Sull'aia della cascina di San Casciano si trovarono insieme i duecento uomini, sui quali pesò quasi interamente la battaglia di Alba. Fenoglio non manca di sottolineare l'inadeguatezza delle munizioni, di cui dispongono i partigiani rispetto ai mezzi militari della repubblica.
La sequenza è segnata da tratti che evidenziano la drammaticità dell'ora.
Nella notte che precedette la battaglia tra i partigiani insonni "si sentì un singhiozzo nel buio"; "la mattina del 2 novembre ci fu per sveglia un boato, verso le quattro e mezza"; al frastuono seguì la visione di un uomo saltato in aria su una mina. In un crescendo di tensione si udì "il rumore che comincia le battaglie". In un casotto di pesca quattro partigiani furono freddati "colle carte in mano" mentre giocavano a poker, stanchi "di far la guardia su e giù". Si alternano suoni lugubri e visioni di morte.
Per quattro ore si protrae la battaglia a San Casciano, aspra e serrata: da una parte e dall'altra gli uomini affrontano la morte da dare o da ricevere. Presso la cascina Miroglio, verso cui erano ripiegati, i partigiani difesero la città per altre due ore, finché il Comandante dette l'ordine di ritirarsi per non essere circondati.
Avrebbero ancora voluto combattere altre due ore per non arrendersi troppo presto, benché sapessero che per il soverchiare delle forze fasciste Alba doveva essere perduta. "Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due".
Fenoglio ci dice con chiarezza che i partigiani, uomini giovani e giovanissimi, inesperti e disorganizzati, erano risoluti a soffrire, a lottare, a difendere la città.
Termina così il racconto. Sono poche pagine rapide, dense, che ci offrono in un linguaggio antiretorico, senza indugi, uno specimen di una vicenda storica tragica ed eroica.
Al lettore si impone il confronto tra questo testo e la narrazione dei medesimi avvenimenti nel romanzo "Il Partigiano Johnny". In questo la narrazione ampia, analitica e complessa si sviluppa secondo il punto di vista di Johnny, personaggio costruito sapientemente con i tratti dell'intellettuale.
Johnny (alter ego dell'autore, presentato nelle prime pagine del romanzo mentre dialoga con i suoi insegnanti del liceo, il prof. Chiodi e il prof. Cocito) ha il ruolo di coscienza critica nelle situazioni, di colui che scava sotto le apparenze, intuisce gli stati d'animo altrui, elabora i problemi, possiede una sensibilità acutissima che lo distingue da tutti gli altri, ma è capace di prendere decisioni operative nei momenti critici.
Egli vive momenti di solitudine, di astrazione (abstraction Fenoglio scrive), di separatezza dai suoi compagni, nel contemplare la natura, nell'ammirare la sua città, di cui presagisce la morte, nel riflettere sulla condizione estrema del partigiano.
"Aleggiava da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione di impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita..Johnny invece (.)" così è presentato il protagonista nella prima pagina del romanzo. Questo ritratto leggero e ironico assumerà connotazioni di serietà e pensosità nel corso della narrazione, accentuando del personaggio la distinzione intellettuale ed etica rispetto agli altri.
Egli decide di uscire dall'isolamento nella villa sulla collina per scegliere "l'arcangelico regno dei partigiani"; li incontra a Murazzano, si presenta e dice "voglio entrare nei partigiani con voi". Incomincia a questo punto la sua avventura ideale, di lotta e di maturazione interiore. E partecipa alla difesa della sua città.
Nella narrazione frequentemente i verbi riferiti a Johnny connotano stati d'animo: la cronaca diventa così anche storia di una coscienza. Alcuni esempi: dopo l'allontanamento dei fascisti che occupavano Alba, i partigiani "si godevano la città", ma "ciò che stranamente lo conturbava era l'aspetto violato della città, felicemente e consensualmente violata, ma violata"3 ma al passaggio di un pattuglione partigiano (.) discretamente fidabile, serio e teso "Johnny col cuore l'accompagnò, lo precedette a grandi, riconoscenti sbalzi verso gli argini sempre più grigi"4. La sera di quello stesso giorno Johnny attraversava la città quasi deserta "compietandola"5, come se pregasse per proteggerne la sacralità o - meglio - come se dedicasse a lei, città sacra, una preghiera. Johnny entrato nella caserma dove gli altri partigiani tentavano, senza riuscirci, di dormire, "capiva" che gli uomini avvertivano un senso di "intrappolamento"6. In questa vicenda fitta di incontri, scontri, sortite repentine, in un paesaggio reso oppressivo dalla pioggia e dal fango Johnny si ritaglia momenti di solitudine e di contemplazione della natura. Lo osserviamo durante un'improvvisa incursione fascista "era retrovia immediata, la sponda su cui si frangeva l'onda rovente della battaglia. Ma Johnny fell in abtraction; c'era nel colore della terra e dell'aria una tale tiepida finezza, un'aurea moderazione e maturità che Johnny s'incantò e si perse nella ricerca della fine di una della sue primissime vacanze estive. Lo riscosse l'altissimo applauso dei borghesi7. "Stufo e deluso Johnny scivolò di schiena sull'inclinazione dell'argine, dando le spalle ai fascisti, sistemato come su una comoda sdraio. Stava così crogiolandosi al sole fuori stagione, prima guardando all'altissimo cielo spiralato, poi alle case della periferia, che impercettibilmente traballavano, come d'estate piena, nell'haze (foschia) anormale"8.
E' di Johnny la riflessione su che cosa significhi essere partigiano, espressa in una forma severa che non ha nulla di retorico: "sedeva e fumava al limite della pioggia. Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere uno o più fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzo stimata, mezzo amata."9E' una riflessione che riecheggia la sentenza del prof. Cocito nelle prime pagine del romanzo: "La vita del partigiano è tutta e solo fatta di casi estremi": dare la morte o riceverla.
Johnny è ironico, con una sua naturale sprezzatura, che deriva da un razionale, calmo, calcolato dominio di sé e delle situazioni. Nei momenti cruciali è deciso, ha idee chiare, impartisce ordini perentori, ha un suo carisma tra gli altri partigiani, possiede una mens strategica; due esempi: nel momento della breve, inaspettata incursione fascista: "gli uomini si serrarono intorno al seminudo Johnny e gli ordinarono di guidarli al ponte dov'era la battaglia. - Nient'affatto - disse Johnny - se quello fosse un diversivo, se il grosso attraversasse proprio qui? (.). Miguel stava immobile e silenzioso, stranamente, unprecedently neutrale, e Johnny si risentì di quella neutralità assai più di tutta l'altra insubordinazione. S'irrigidì. - Tutti alla postazione. Proibito anche fumare.10"Disse il capitano Marini - Vero che mettereste la firma per un combattimento così ogni giorno fino alla fine? (.) Il fragore al centro era sempre più alto e filato, come se tutto dipendesse dalla pressione su un congegno elettrico. Johnny frowned e disse - C'è un vero motivo per sparare così tanto al centro? Non per dare ai fascisti il credito del genio, ma se oggi non mirassero ad altro che a dissanguarci di munizioni in vista del più vero attacco di domani o posdomani? Marini spense il sorriso come una luce e stalked verso il centro"11.
Il leit-motiv della narrazione, che occupa i capitoli 21-24 del romanzo, è la percezione della sconfitta nella lotta contro le forze fasciste soverchianti. Fenoglio costella il racconto di segnali e indizi di sconfitta e di morte: è la prospettiva letteraria dell'epica della sconfitta, perfettamente individuata dal critico Giorgio Barberi Squarotti.
Il capo di un "reparto comunista", che aveva dirottato un lancio inglese incontra il badogliano Johnny sulla riva del fiume, subito dopo la ritirata del contingente fascista; a Johnny che gli chiede "chi è quel genio? Fece una smorfia. - Il genio è morto. Morì qualche giorno dopo lo scherzo, in uno sconto con la loro cavalleria a V. Uno scontro cominciato bene per noi e finito malissimo proprio perché ci perdemmo Gabilondo. Qui nessuno si illude, dovremo rimanerci tutti, gli ultimi venuti vedranno la vittoria"12. Alla domanda "secondo te, amico, quanti giorni i fascisti ci lasceranno in possesso della città? (..) - Quindici - disse Johnny, e come l'altro grimaced - Sono ottimista? - superottimista"13. Lo scontro con i fascisti è inevitabile. "Ci rivedremo sul campo. - disse uno dei gerarchi dopo la trattativa fallita - Certissimamente - risponde Pierre quietamente per tutti"14.
Il presentimento della sconfitta serpeggia tra gli uomini e si proietta funestamente nel colore livido del cielo, nella pioggia "parossistica", nel fango "lievitante". Il giorno dell'attacco sarà il 2 novembre. "Disse forte, ma come a se stesso un ragazzo. E' il giorno dei morti, domani". I partigiani si ritrovano in non più di duecento sull'immensa aia della fattoria di San Casciano dei duemila presenti alla presa della città. C'è pessimismo tra gli uomini di Johnny: il suo vicino obietta che sarebbero stati battuti ugualmente anche in duemila. Grava su tutti l'incubo dello scontro. Anche il proprietario della fattoria ha una "indissimulabile aria di star receptioning la parte perdente"15. Anche la padrona "inconsapevolmente" offre a Johnny "per questa ultima notte" il letto dei suoi figli16. Nella successione degli indizi è centrale il momento della riflessione di Johnny che si sottrae alle conversazioni degli ufficiali intorno al "calderone di vino caldo" preparato nella cascina. "Bevuto che ebbe, Johnny a una finestrella orizzontale intagliata nel muro nudo e attraverso essa vide le ombre delle mura della città nei vapori bassi danzanti, le torri e i campanili svanivano nel cielo cinerognolo. Mai come in quel momento capì quanto ci tenesse alla città, quanto pericolo essa corresse e quanto poco egli potesse fare per essa.
Alle spalle aveva il ronzio delle anodine conversazioni degli ufficiali, fuori gli uomini continuarono il coro, con un effetto lancinante, le bocche spalancate al cielo spettrale"17.
Johnny mai come in questa vigilia di sconfitta avverte di amare la sua città, per la cui difesa si sente impotente: la osserva come se fosse un luogo miticamente trasfigurato, inafferrabile, avvolto da "vapori bassi danzanti" che la proiettano in una lontananza fisica e metafisica.
L'animo di Johnny è quello dell'Ettore omerico, che saluta per l'ultima volta Andromaca e il figlioletto e affronta i Greci, benché egli sappia "nel cuore e nell'animo che Ilio cadrà" (vv. 447-448 C. VI Iliade). E' l'animo di Argante, difensore di Gerusalemme, che, conscio dell'ineluttabilità del suo fosco destino, affronta l'eroe Tancredi. E' il tema foscoliano e romantico della nobiltà dell'eroismo sconfitto.
Mentre Johnny osserva la città gli uomini continuano il coro, "le bocche spalancate al cielo spettrale": è una rappresentazione icastica, colma di angosciosa che può richiamare alla memoria la pittura di Munch. La natura stessa partecipa dell'attesa angoscia: il cielo "informe", "la notte nera", le acque "livide" "più livida la sponda", la pioggia "parossistica", i cani che latrano in un modo particolare, che non piace alla padrona, sono segnali lugubri.
Alle cinque scoppiò un grande fragore: è l'inizio della giornata campale.
La narrazione nel racconto "I 23 giorni" è condensata in pochissime pagine tese e ancora vibranti di uno sdegno che brucia nell'anima. Lo scontro dei partigiani, "quei dilettanti della trincea", con i fascisti "assaltatori ammaestrati, dotati di munizioni e carri armati, non poteva che risolversi nella sconfitta"; "i rinforzi fino alla fine arrivarono solo per telefono"; un migliaio di partigiani, mentre quell'esiguo drappello di eroi resisteva presso la cascina Miroglio, a Dogliani "sparavano nei tirassegni, taroccavano le ragazze, bevevano le bibite e riuscivano con molta facilità a non sentire il fragore della battaglia di Alba".
Quei "dilettanti" volontari al segnale della ritirata indugiano nell'aia: sanno che Alba è perduta, ma non si rassegnano a perderla dopo breve combattimento. Preferirebbero ancora resistere, perché sanno bene di lottare per un valore nobilissimo, che non sono riusciti ad affermare.
Per questo "scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura". La scena si chiude sul viale del santuario deserto, in cui solo una donna "di più di cinquant'anni, al vederli scoppiò a piangere e diceva bravo a tutti". I cittadini si erano di nuovo chiusi nella paura. "I fascisti andarono personalmente a suonarsi le campane"; terminano allo stesso modo il racconto e il cap. 24° del Partigiano Johnny.
Fenoglio ripetutamente, anche nei racconti, ci fa comprendere da quale parte fosse l'animo della gente: questo concerto di campane è ben diverso da quello che inondò la città dopo la ritirata dei fascisti "allora qualcuno s'attaccò alla fune del campanone della cattedrale, altri alle corde delle campane dell'altre otto chiese di Alba e sembrò che sulla città piovesse scheggioni di bronzo".
Alla gioia collettiva del 10 ottobre segue il 2 novembre la scena del viale deserto per la paura.
La narrazione nei capitoli 21-24 del "Partigiano Johnny" è più complessa, ricca di azioni scandite dalla sequela di uomini uccisi e feriti sul campo sotto la pioggia e nell' "acquoso fango congelante".
Essa è costruita con una sapienza letteraria matura, il cui nucleo poetico è la nobiltà della sconfitta, subita senza pianto e senza recriminazioni, con calmo dominio di sé come ineluttabile.
Rivivono nello scrittore i valori omerici della bella morte e dell'onore.
Lo scontro è impari; i fascisti sono numerosi "tutti in abbondante equipaggiamento, con lucidi elmetti, verdi come ramarri". Uno dei minorenni di Johnny subisce una ferita al braccio sinistro, ma "pacatamente, educatamente" richiama l'attenzione di Johnny; un altro ragazzo è bloccato dal terrore; un altro ancora con "calma" e "inallusività" gli fa notare Miguel prono sulla Buffalo, con una ferita in fronte, senza vita: "Johnny incombette su di lui, freddo e muto, sentendosi come mutilato". Cade il partigiano "quello calvo con il fratello in Svizzera", un ragazzo "mostra le due braccia trapassate da una singola palla". Johnny è al centro di una scena molteplice, che ha le tinte della tragedia: la natura stessa è avversa, opprimente, le raffiche e le mortaiate fendono l'aria; ma egli si astrae "completamente nella brevità e nell'interminabilità del tempo di guerra. Poteva benissimo aver cominciato a sparare un attimo fa e appena intaccato un caricatore o, indifferentemente, star sparando dal principio del mondo, consumando tutte le munizioni prodotte per lui da tutti gli altri uomini". E' un'immagine di Johnny che assume un significato metafisico, sospesa tra la brevità e l'interminabilità del tempo, come quella dell'"ufficiale biondissimo" che "si affiancò per un momento a Johnny, il vatro immacolato, armato di sola pistola, trattando il fango con piedi leggeri come fosse una plaything". Sono due simboli puri della nobiltà e del valore di quella lotta combattuta fino al sacrificio della vita per la difesa della libertà contro il nemico che la nega; e come simboli di un valore perenne e assoluto possono astrarsi in una dimensione che è fuori del tempo e dello spazio, ossia nella poesia, che germina dalle vicende della storia per innalzarsi a interprete dell'umanità di ogni tempo.
Nella poesia epica la sconfitta ha un suo magnanimo decoro; così, constatato che la "partita" è "perduta", gli uomini vivono "la disperatezza della situazione" senza rimproverare nessuno: il capitano Marini non biasima né Lampus né Nord "che non intendono buttare in campo altri uomini"; Johnny trova "l'amarezza troppo grande, troppo eccelsa per sminuirla con recriminazioni".
Il pensiero degli sconfitti è rivolto alla città "cinta dalle acque, in nuda tremante carne" e ai morti sul campo. Il rispetto dei caduti in battaglia è un topos della poesia epica; "Il capitano Marini invitava tutti a tenere a mente i posti dei morti - Tenete in mente i posti, domani parlamenteremo per i morti, domani stesso". Rivive in queste pagine la suggestione dell'epos omerico e virgiliano: era sacra per gli eroi la tregua delle armi per onorare chi aveva affrontato a viso aperto il nemico ed era caduto trafitto18.
Note
Bibliografia
Da "Beppe Fenoglio" a cura di Paola Gramaglia, Lanfranco Ugona, Manuela Ugona.
Murazzano, Centro Culturale "Beppe Fenoglio", 2003.