Laudatio del Prof. Gian Luigi Beccaria
Dei libri di Beppe Fenoglio, scrittore di altissimo rango, abbiamo in questi ultimi decenni respirato l'aria. L'aria intrepida e giovane che ci ha fatto abitare l'invisibile mondo della nostra libertà, e delle nostre attese e speranze. Appena li leggemmo, libri come La malora, Primavera di bellezza, Una questione privata, Il partigiano Johnny, diedero alla nostra vita un nuovo respiro, una dilatazione degli orizzonti. Del vento nuovo che circolava nelle sue pagine testimoniava Italo Calvino, che nella prefazione del '64 alla seconda edizione del Sentiero dei nidi di ragno scriveva: "fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando più nessuno se l'aspettava [.], e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant'anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c'è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita".Ma non è ora l'occasione adatta, nel momento di una laurea alla memoria, per ripercorrere quei libri. Ne conosciamo così bene i passi memorabili, molti di noi conoscono bene anche i luoghi dove si svolsero gli eventi, mirabilmente descritti e scolpiti poi nelle nostre menti, al punto che quei libri sono riusciti a farci vedere ciò che noi non eravamo in grado di vedere da soli. Quelle colline familiari, dopo Fenoglio non sono state più le stesse. Le vediamo con altri occhi. Perché, quando un grande scrittore dice una parola nuova, quella è detta come per la prima volta, e come per sempre, e da quel momento riviviamo, come se fosse proprio per la prima volta, anzi rinnoviamo i paesaggi e le vicende e i personaggi a noi già noti. Privilegio delle più alte scritture letterarie (lo annotava Luigi Meneghello parlando del Nostro) [1] è quello di "darci insieme il senso dello straordinario e quello del vero. C'è un effetto di sorpresa e insieme di assoluta attendibilità". Coi grandi classici capita come con gli amici: ti sorprende un'amicizia, così come succede coi libri. Agisce anche un qualche cosa di inconscio e di irrazionale.
E' difatti difficile comunicare l'emozione del momento in cui abbiamo letto per la prima volta Primavera di bellezza o Il Partigiano Johnny. Quando abbiamo incontrato Il Partigiano, questo libro ci ha stordito come un pugno nello stomaco, non ce lo aspettavamo un libro di così cocente attualità e insieme di sperduta lontananza e arcaicità. Forse era il luogo di incontro con temi attesi che Fenoglio sembrava avesse raccolto e portato alla luce per noi. Avveniva un incontro-riconoscimento, un innesco di sintonizzazione che non doveva più abbandonarci. Avevamo riconosciuto un "classico", che da quel momento avrebbe fatto parte della nostra biblioteca e della nostra vita.
Se fossi uno scrittore mi piacerebbe essere capace di rievocare l'incontro con le sue pagine sconosciute, quando per la prima volta capitò di seguire quel suo inedito passo, quel misterioso fervore stilistico segnato da un irripetibile tempo mitico, da un nobile procedere epico, una narrazione di forza e d'istinto. Nessuno si aspettava che potesse scrivere così, secco o maestoso, realistico e sublime insieme, alternare vicende incalzanti, fughe anelanti, attacchi improvvisi a silenzi stregati, a giornate sabbatiche e pacificate, un oscillare tra l'infernale e l'edenico, tra guerra ed asfodeli. E poi, le scritture di un paesaggio collinare, abitato da soli uomini combattenti, o torme anonime di contadini in fuga, con qualche figura petrea come di atzteco o egizio, e i molti paesi disabitati come acropoli, e colline polifemiche, da primavera del mondo, come marosi giganti solidificatisi d'incanto, su cui grandeggia, anzi "veleggia" l'eroe, e le fattorie dalle mura babiloniche, badiali, cascine posate come arca sulla sommità di un colle-approdo, colline acrocoriche, terre incalpestate, come da Genesi, un Sinai. A contrasto coi momenti salvifici, il fango e la nebbia che intrappolano, elementi di castigo di accerchiamento e di morte. E poi la neve, abbraccio della solitudine, silenzio sacro, come stralciato dai rumori della guerra, la neve come incanto luminoso, pace celeste, salvezza. Salvezze innestate sempre sul fondo maligno delle cose, con silenzi spettrali, e la paura, le voragini delle notti nere, il vento-serpente, il vento fiumana, che soffia ora demoniaco ora nella sua dimensione esaltante, eroica, maestosa, l'acqua del fiume in piena e la pioggia come flagelli, riscritture del diluvio, e le riscritture dell'inferno nei paesi bruciati, e la luce nelle gestazioni dolorose del giorno che nasce, o la perdita di esso, i passaggi repentini dal giorno alla tenebra, le rapinose tristezze del tramonto. Temi ritornanti, che si illuminano come fiamma e cristallo soprattutto per forza di una scrittura che riesce a congiungere l'inconciliabile: nel senso che Fenoglio, come alcuni suoi grandi conterranei (Alfieri poniamo, o Pavese, entrambi in cerca ostinata di una lingua, scrittori insoddisfatti e diffidenti della medietà, trascinati da un singolare orgoglio stilistico), riesce a risolvere il suo fare in un "continuo sperimentare", ma talmente "in positivo" (perché privo di "divertimento") da non contemplare mai ombra di "dissoluzione del linguaggio", anzi mettendo in valore l'imperterrita volontà di ricostituirlo lungo le linee di "una nuova classicità"[2].
Scrittura e vita per Fenoglio furono tutt'uno.
Prima di cominciare a scrivere intorno al tema della Resistenza, aveva già operato una scelta, la giusta scelta per la libertà, salendo sulle coline a combattere contro i fascisti. Anche se nei suoi scritti non esprimerà giudizi diretti di condanna nei riguardi del nemico, sapeva da che parte si ha da stare. Come un cavaliere antico che ha ricevuto una investitura, e sa dove è il bene, partirà verso "le somme colline", con la coscienza dell' "uso legittimo" che avrebbe fatto del suo potere.
Ma oggi siamo qui per ricordare che, prima di partigiano, Fenoglio era stato studente nostro. Si era formato al liceo di Alba. Un suo professore di filosofia (era Pietro Chiodi) lo ricorda così: "Io avevo ventitrè anni quando giunsi ad Alba per insegnare filosofia e storia al liceo classico. Fenoglio ne aveva allora diciotto. Per il ventotto ottobre era obbligatorio svolgere un tema ministeriale di elogio sulla marcia su Roma. Nell'ora precedente alla mia il professore di italiano aveva dettato il solito insulso tema. Quando io entrai in classe notai subito uno studente nel primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Beppe Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato per le conseguenze, feci chiamare il professore di italiano. Era Leonardo Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca" [3]. Dopo la maturità (siamo nel 1940) Fenoglio si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino. La madre da sempre lo voleva laureato. Modesta la famiglia, e siamo negli anni Trenta: eppure lei già aveva mandato tutti e due i maschi al Liceo classico di Alba. Vi manderà poi la figlia. Era una grande madre, una di quelle dolenti ma forti donne di Langa, che di Beppe poi non lesse mai un rigo: diceva di sapere già quel che poteva esserci nei suoi libri, tanto bene lo conosceva. Lo scrivere del figlio per la madre restò sempre un'attività misteriosa, enigmatica, indecifrabile, uno scrivere al quale si avvicinò sempre con cautela, con sospetto, alla fine con rispetto [4]. Gli anni universitari: i dati biografici risultano scarni e nebulosi. Sono laconicamente consegnati alla lettera del 9 febbraio 1952 a Calvino "Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato trent'anni fa ad Alba (1° marzo 1922) - studente (Ginnasio-Liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono laureato) - soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che si tutto qui. Ti basta, no? Mi chiedi una fotografia. Ora sono sette anni circa che non mi faccio fotografare".
Sceglie dunque Lettere, a Torino. Abbiamo rintracciato in Segreteria il suo ruolino di marcia: è stato iscritto negli a.a. 1940/41, 1941/42, 1942/43, poi è chiamato alle armi, nel '43, anno in cui lascia l'Università. Iscritto ai corsi di Letteratura italiana (Pastonchi), Letteratura latina (Rostagni), Filologia romanza (Ugolini), Storia della filosofia (Abbagnano), Storia medievale (Cagnasso), Storia romana (Andreotti). Storia della musica (Della Corte), Storia moderna (Lemmi), Geografia (Magnaghi) e Inglese (Olivero), sostiene otto esami, con un trenta di Storia romana, tre ventisette (Storia della musica, Storia moderna, Filologia romanza), un ventisei di Storia medievale, un ventiquattro di Storia della filosofia, un ventidue di Geografia, e, curiosamente, un ventiquattro di inglese, con Olivero (il professore di Pavese, che poi dovette sostenere la tesi su Whitman con Neri, il professore di Calvino laureato su Conrad; e di Claudio Gorlier, laureato su T.S. Eliot). Un ventiquattro era un voto assai basso per uno come lui che aveva si può dire per prima lingua l'inglese (la sorella Marisa, quando dopo la fine della guerra Beppe trova un posto come corrispondente estero presso una ditta vinicola di Alba, ricorda le litigate con la madre, che lo voleva al sicuro, dietro un scrivania, con precisi orari d'ufficio: "Lo sai cos'è l'inglese per me?" le gridò un giorno. "Riesci ad immaginartelo? Io, che leggo, che scrivo, che penso in inglese, che mi calo in quella lingua come fosse la mia, che ne faccio quello che voglio, io adesso potrò solo più scriverci delle lettere commerciali!") [5]. Non c'è bisogno del resto di una testimonianza personale. Ci sono le mirabili traduzioni di Hopkins, T.S. Eliot, Edgar Lee Masters, Creeley, Coleridge. Basterebbero quelle per laurearlo. La sorella, dicevo, che ho intervistato, ha un ricordo vago di quegli anni di Università, era molto piccola, ricorda soltanto una scenata della madre quando scopre, forse informata da qualcuna di quelle sue attentissime clienti, che Beppe spesso, invece di andare a Torino, si fermava sulle sponde del Tanaro e andava su e giù per ore, fumando e meditando. Ma andare a Torino, per Fenoglio, era come un viaggio in terra straniera. Ci veniva soltanto per le partite, veniva per la Juventus. Però, il tema della laurea non conseguita, in Fenoglio fu ricorrente, ossessivo. Nell'intervista a Filippo Acrocca [6]: "Scrivo per un'infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico.ecc.". E c'è una testimonianza di Gina Lagorio [7], su Fenoglio che dopo l'esperienza partigiana alla laurea "non pensò più: un giorno alla madre che per l'ennesima volta lo esortava a non disperdersi, a finire gli studi, con uno di quei suoi scatti bruschi che non sapevano nascondere a chi lo amava la profonda bontà e l'infinito attaccamento agli affetti essenziali, egli ribatté accigliato: 'Madre, la laurea me la porteranno a casa'".
Ebbene, l'Università di Torino oggi gliela porta finalmente, e solennemente, a casa.