Intervento della figlia di Beppe Fenoglio, Margherita Fenoglio
Desidero, innanzitutto, ringraziare il Magnifico Rettore dell'Università di Torino, il Preside e i professori della Facoltà di Lettere e tutti coloro che partecipano a questa cerimonia. Sento la difficoltà ed il peso, sebbene dolcissimo, di parlare di mio padre davanti questa autorevole platea ed in una tale occasione; è per questo che chiedo la loro comprensione e mi auguro di non cedere alla commozione, all'emozione mi sono già arresa.Della "grandezza letteraria" di mio padre, altri, ed assai più autorevoli di me, studiosi, critici, filologi e persino storici molto hanno detto e, credo, diranno ancora. Per quanto mi riguarda debbo dire, come la maggior parte di loro saprà, che, quando mio padre morì, io avevo appena compiuto due anni, e che, quindi, non sono in grado di riferire alcun ricordo "personale".
Della "grandezza letteraria" di mio padre, altri, ed assai più autorevoli di me, studiosi, critici, filologi e persino storici molto hanno detto e, credo, diranno ancora. Per quanto mi riguarda debbo dire, come la maggior parte di loro saprà, che, quando mio padre morì, io avevo appena compiuto due anni, e che, quindi, non sono in grado di riferire alcun ricordo "personale".
Ed allora, nel preparare questo intervento, ho lasciato correre i pensieri, in libertà. Posso solo raccontare il risultato, come "ho visto" mio padre, come "l'ho pensato ed immaginato". L'ho visto a scuola, nel suo amatissimo liceo, ragazzo "deciso ed indocile". Il prof. Chiodi, docente di storia e filosofia in quel liceo, ricordava spesso un piccolo, ma emblematico, episodio. L'ha già ricordato il prof. Beccaria: "Fenoglio aveva 18 anni quando io, ventitreenne, giunsi ad Alba per insegnare al liceo classico. Per il 28 ottobre era obbligatorio svolgere un tema ministeriale di elogio sulla marcia di Roma. Nell'ora antecedente la mia, il prof. di italiano, aveva dettato il solito insulso tema; quando entrai in classe notai subito uno studente al primo banco con le braccia incrociate che guardava annoiato il foglio bianco. Era Fenoglio. Lo invitai a scrivere, ma scuoteva la testa. Preoccupato feci chiamare il prof. di italiano. Era Cocito. Parlottarono da complici. Ma non ci fu verso. La pagina rimase bianca". Dopo il liceo, l'iscrizione all'Università, alla Facoltà di lettere, ma i suoi studi vennero interrotti dalla chiamata alle armi; l'8 settembre lo colse a Roma; ritornò, avventurosamente ad Alba. Egli era cresciuto nel periodo che aveva conosciuto l'orrore della dittatura fascista e della guerra e non se lo era più dimenticato. Ed è in quei momenti, cupissimi, che mio padre, così come tanti altri, sentì irrinunciabile "la necessità di scegliere", di scegliere "da che parte stare"; e la sua scelta fu quella della libertà. D'altronde, non poteva essere diversamente: i suoi "maestri" erano stati proprio Chiodi e Cocito; quest'ultimo sarà poi ucciso dai tedeschi, impiccato ad un gancio da macellaio. La scelta della libertà, dicevo, la scelta delle "somme" colline, tanto amate, sulle quali gli "era toccato di farci l'ultima cosa immaginabile, la guerra". Nel romanzo definito il suo "capolavoro", Il Partigiano Johnny, egli non racconta soltanto la "Resistenza", ma "l'esistenza", la vita di un giovane partigiano che, ad un certo punto del suo percorso, "sceglie". Mi piace immaginarlo "alto e fermo", sulla sommità di una collina, forte di quel rigore morale e quella passione civile che tutti gli riconoscono. Cito: "partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l'avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com'è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito - nor death ityself would have been divestiture - in nome dell'autentico popolo di Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell'uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra". Mi piace immaginarlo davanti alla macchina da scrivere nell'esatto momento in cui le dita pigiano i tasti........."partigiano in aeternum"..."partigiano come poeta è parola assoluta rigettante ogni gradualità". Il rigore e la passione, dicevo, che mio padre ha dimostrato nella vita e nelle lettere; ecco, io penso che sia proprio questo, per tutti, ma soprattutto per i più giovani, il segno della sua modernità.
Oltre vent'anni fa, un giovane, (Danilo Manera, ora scrittore e professore all'Università Statale di Milano), al convegno per il ventennale della morte di mio padre, disse: il libro che noi portavamo ed avevamo sul tavolo, in tasca e anche tra i polmoni era Il Partigiano Johnny. Lo avevamo perché Beppe Fenoglio e quello che aveva scritto voleva dire per noi che era possibile, e che era doveroso, uscire dall'imbuto, dalla strettoia della vita, (nel senso angusto, provinciale, della incultura); che era possibile, che era doveroso uscire da questa stessa città, con questa testimonianza a noi così vicina, e viaggiare per il mondo. Ed è stato conl Partigiano Johnny nello zaino che abbiamo percorso l'Europa e qualcuno è andato ancora più lontano". Poco tempo fa, un ragazzo di non più di vent'anni mi ha detto: in questi tempi, bisognerebbe impararlo a memoria; e si riferiva a Il Partigiano Johnny.
E' una grande consolazione per la famiglia che ha perduto un uomo (padre o marito, figlio o fratello) nella pienezza degli anni e della fecondità letteraria, pensare che abbia lasciato un'orma indelebile nei suoi lettori per essersi confrontato con i grandi problemi della esistenza umana, con i "problemi estremi, con le cose ultime, con gli interrogativi del destino, la vita e la morte, la violenza, il bene ed il male, la libertà e la pace", (come ha scritto il prof. Beccaria), con gli affetti privati e le passioni collettive. L'ho visto camminare con lunghe ed instancabili falcate sulla Langa, teatro di molta parte della sua vita; non soltanto della guerra civile, ma delle vacanze di bambino, del gioco del pallone elastico, della chiacchiere con i paesani, dai quali ascoltava con attenzione ogni parola che potesse essergli utile per un racconto. Come quella di Pietro Gallesio, tragico protagonista de Un Giorno di fuoco. Come quella di Agostino, ne La malora, povero servitore di campagna che, nonostante l'allontanamento dalla famiglia, il lavoro bestiale, la tragica sorte del padre e del fratello, non è vinto e rimane fedele alla terra. Destino di molti, in quei tempi, di cui si sarebbe perduto il ricordo se mio padre non ne avesse scritto, rendendone testimonianza.
Ho pensato, poi, a mio padre che si rammaricava, ancora molti anni dopo, per non aver compiuto gli studi. Nel '60, in un'intervista, disse "scrivo per un'infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un'infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine 'esce' spensierata da una decina di penosi rifacimenti". Del mancato coronamento degli studi, ancora più si doleva mia nonna Margherita, alla quale vorrei dedicare anche questo importante riconoscimento di oggi, alla madre amatissima di un figlio amatissimo. La mia nonna era nata alla fine dell'Ottocento, aveva frequentato soltanto la terza elementare, ma era una donna intelligentissima, (mio padre una volta disse: "se mia madre avesse la cultura pari all'intelligenza sarebbe diabolica"), energica e lungimirante. Aveva avuto "la forza ed il coraggio" di mandare al liceo e poi all'università tutti i suoi tre figli (i figli del macellaio). Alla nonna dispiaceva moltissimo che il figlio non si fosse laureato. Avrebbe tanto desiderato per Beppe un lavoro "concreto e sicuro" e quello dello scrittore, per lei, non era tale. In un'intervista disse: "l'università non l'ha finita. Io gli dicevo sempre di studiare ma lui aveva la passione dello scrivere. Gli trovavo sempre foglietti scarabocchiati dappertutto anche sotto il letto. Eppure non ho mai pensato che potesse diventare uno scrittore, neanche quando sono usciti i primi libri. Scriveva sempre, ma soprattutto di notte e fino ad ora tarda. Scriveva e fumava, fumava e scriveva. Una volta l'ho rimproverato, forse eccessivamente: Beppe mi ha risposto 'vuoi capirlo, madre, che scrivo'". In un'altra occasione Fenoglio le disse: "madre, il mio nome resterà ed il tuo no. Ha avuto ragione lui, ma io, allora, non gli ho creduto". Così come non gli ha creduto quando le ha detto, profeticamente: "madre, la laurea me la porteranno a casa".
Così è, infatti, oggi. Ed è quindi con grande compiacimento, orgoglio e commozione, che ritiro a nome di mio padre questo altissimo riconoscimento, la laurea ad honorem alla sua memoria, nella consapevolezza che mio padre sia stato, sia e, credo, sarà ancora, non solo stimato ed apprezzato, ma anche molto amato. Amato con quel grande consenso che riconosce, quando c'è, la grandezza dello scrittore e dell'uomo.