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LE DONNE NELLA RESISTENZA

Le donne, uniche «volontarie a pieno titolo nella resistenza» (A. Bravo-A.M. Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne, 1940-1945, Roma, Bari, Laterza, 1995, p. 189), in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento, e in generale non obbligate alla fuga e al nascondimento, sono impegnate in ognuno dei compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità: «nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, […] [nei] Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà» (A. Bravo, Resistenza civile, in Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti-R.Sandri-F. Sessi, Torino, Einaudi, 200o, v. 1, p. 268). Armate o disarmate, d'ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale, tradizione familiare o più semplicemente “di guerra” – cioè per quell'opposizione che si sviluppa sulla base della quotidianità fatta di bombardamenti, fame, lutti, dei quali si incolpa a ragione il regime – destinate a fare dell'opzione di lotta un elemento determinante della propria esistenza o un (mai semplice) passaggio biografico estemporaneo, le donne non offrono alla Resistenza solo un contributo, ma partecipano attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile della lotta stessa nelle sue varie declinazioni.

Il ruolo delle donne nella Resistenza si differenzia in base al periodo cronologico della loro attività e al luogo in cui esse si trovano. Ciononostante, determinati comportamenti divengono caratteristiche perduranti del loro intervento: si pensi, ad esempio, all'impegno nella protezione, che dà vita a un «maternage di massa» che, attivato all'8 settembre 1943, «rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana» (Ivi, p. 270) fino alla fine della guerra, se non oltre.

Le donne sono le protagoniste principali (ma non uniche) della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente concreti e importanti da un punto di vista strategico e politico: si pensi alle donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo letteralmente svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell'insurrezione cittadina. Si pensi, ancora, alle cittadine di Carrara che, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica.

Al di là dell'impegno nell'opposizione civile, le donne sono parimenti importanti nella lotta armata partigiana: non solo staffette, sono combattenti armate nelle bande extra-urbane, membri dei GAP e delle SAP in città e nelle fabbriche, addette ai fondamentali servizi logistici – «un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere […] [m]eno che mai quello resistenziale» (Ivi, p. 272), organizzatrici di manifestazioni contro la guerra, a favore dei detenuti e dei deportati, o in onore dei partigiani caduti. Ancora, sono militanti attive dei Gruppi di difesa, creati dalle donne e per le donne quale vera e propria struttura politica che, sulla scorta di un «programma di affermazione di diritti e opportunità», rivendica la «titolarità delle azioni femminili» nella Resistenza (Ivi, p. 279.).

La lotta di Liberazione offre alle donne la «prima occasione storica di politicizzazione democratica» (Ivi, p. 271. Bravo fa riferimento a B. Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino, Einaudi, 1977; M. Mafai, Pane nero, Milano, Mondadori, 1987), ma si tratta di un'esperienza non priva di contraddizioni: in un universo in cui permane la «centralità del paradigma del maschio guerriero» (S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, p. 213), che fa della lotta armata una modalità prettamente maschile, conservando «archetipi culturali» che richiederanno altri decenni per essere anche solo scalfiti, le donne partigiane imbarazzano e destabilizzano anche coloro che, al loro fianco o con loro al proprio fianco, hanno combattuto per dar vita a qualcosa di radicalmente nuovo. È per questa ragione che, alla Liberazione, le donne sono escluse da molte delle sfilate partigiane nelle città liberate; in precedenza, non erano mancate, tra i compagni di lotta, le voci che criticavano la scelta femminile di abbandonare il focolare per impegnarsi nella guerra partigiana, che implica convivenza, promiscuità, assenza di controllo parentale. Oltre a questo, anche la Resistenza cerca spesso donne che siano disposte a continuare a svolgere, per quanto delocalizzate dagli spazi consueti dell'esistenza di generazioni e generazioni femminili, i compiti classici dell'assistenza e della cura: quindi, più che combattenti, si vogliono donne madri e spose, cuoche e infermiere. Alle donne, in sintesi, si dimostra gratitudine e rispetto, ma non riconoscimento politico o militare: «Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici. Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente» (A. Bravo, Resistenza civile, cit., p. 273). Sebbene impiegate in ambiti diversi all'interno del molteplice universo della Resistenza – le donne riassumono in sé quasi tutte le anime plurali dell'opposizione al nazifascismo, dall'estremo della lotta armata a quello della resistenza disarmata – gli elementi femminili risultano quasi “condannati” al compito ancillare e ausiliario, al ruolo «vago e miniaturizzante» (Ivi, p. 272) di staffette, che, tuttavia, è solo apparentemente meno pericoloso, in quanto implica la trasmissione di materiali (ordini, direttive, armi, munizioni etc.) talmente scottanti da esporre a rischi serissimi i latori, che per giunta sono disarmati e quindi materialmente incapaci di difendersi.

Questa sottovalutazione riguarda lo svolgersi della lotta e soprattutto ciò che accade dopo la conclusione vittoriosa di essa: pochissime (35.000 a fronte di 150.000 uomini) sono le donne alle quali sarà riconosciuta la qualifica di partigiana combattente, nonostante un impegno, nei fatti, molto più significativo. Tante donne, presumibilmente, non chiederanno il riconoscimento; a tante, materialmente, esso sarà ingiustamente negato.

 

 

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