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La malora

Analisi delle opere di Beppe Fenoglio

La malora è pubblicata nel 1954, due anni dopo I ventitre giorni della città di Alba.
La vicenda, ambientata nelle Langhe, rievoca il mondo contadino dei primi anni del Novecento; ma la dimensione storica è poco significativa, perché Beppe Fenoglio conferisce ai personaggi, pur drammaticamente vivi, un carattere simbolico.
La “malora” è la malasorte che colpisce una terra avara, abitata da persone prostrate non solo dalla miseria, ma anche dalle ingiustizie della condizione umana.
Il protagonista del romanzo è Agostino Braida, che ricorda i momenti più tragici della sua vita.
La narrazione si apre con l’immagine del cimitero di San Benedetto Belbo, dove è sepolto il padre del ragazzo, e si dilata, nella memoria, agli avvenimenti che precedono e seguono il lutto.
La famiglia Braida vive nell’alta Langa, una zona collinare povera di vegetazione e di acqua: la terra non è fertile ed il cibo è scarso.
Agostino abbandona la casa per andare a lavorare, come servitore, al Pavaglione, presso Tobia Rabino, mezzadro di un ricco farmacista di Alba; mentre il fratello Emilio è costretto ad entrare in seminario, dove Agostino lo rivedrà depresso, affamato ed ammalato di tisi.
Fenoglio descrive un mondo di sfruttati, braccianti e affittavoli, abbrutiti dal lavoro ed accomunati dalla lotta per la sopravvivenza; difatti, anche i figli di Tobia non sfuggono alla dura realtà quotidiana della fatica.
Al Pavaglione, i rapporti umani sono rari, condizionati dalla necessità, spesso dominati dalla violenza.
La rigida gerarchia sociale, fondata sul denaro, è accettata fatalisticamente: tutti i personaggi subiscono il loro destino come una condanna alla quale nessuna volontà può sottrarsi.
Solo quando Agostino e Tobia scendono ad Alba, la città dove vive il padrone del Pavaglione, appare il miraggio lontano di un mondo diverso ed irraggiungibile.
Ne La malora nessuno si salva dalla maledizione, neppure le donne, che sono sfruttate fino all’esaurimento di ogni energia: esse trascorrono la loro esistenza nel lavoro e nella preghiera, che è la religiosa ed istintiva accettazione della sofferenza, l’invocazione di un Dio lontano, inavvertibile.
Nel momento in cui la moglie di Tobia reagisce e chiede comprensione, è già troppo tardi: ormai è malata e consumata dalla fatica.
Solo raramente, nel romanzo, si apre per i personaggi la possibilità di intravedere nella vita una speranza o una corrispondenza di affetti.
Quando Agostino incontra Fede, la ragazza assunta come “servente” per aiutare la padrona malata, la sua monotona esistenza si anima di attese, di sguardi e di momenti intensi, di emozioni quasi irreali. Il ragazzo ritrova in sé energie inaspettate: nonostante il cibo insufficiente, il lavoro gli appare meno duro.
La dolcezza di Fede gli restituisce un’allegria ed una giovinezza che non ha mai conosciuto. Ma, proprio quando Agostino comincia ad immaginare una vita diversa per entrambi, la ragazza è costretta dai parenti ad un matrimonio d’interesse.
Dopo la partenza di Fede, la vita al Pavaglione diviene insopportabile per Agostino; ma la fortuna sembra, per una volta, volerlo aiutare: egli può tornare a casa, perché il fratello maggiore, Stefano, è assunto dagli zii come primo garzone.
Il ragazzo è finalmente libero, ma continua a vivere di stenti, con la madre, nell’attesa del ritorno del fratello Emilio, gravemente ammalato.
Il romanzo si chiude con un’immagine di morte.
Il racconto in prima persona consente al lettore di immedesimarsi nell’ambiente e di percepire, nell’espressiva spontaneità di una lingua regionale semplice e scabra, i sentimenti del protagonista.
Colpisce, in quest’opera di Fenoglio, la perfetta coerenza degli elementi che la compongono: i caratteri dei personaggi, le passioni, le immagini della natura e l’asprezza del linguaggio, appaiono come momenti inscindibili di un’unica esperienza umana e poetica.

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