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LONGHI Roberto Ermanno Giuseppe

1890 - 1970 Storico e critico d'Arte

Roberto Longhi nasce ad Alba al n. 9 di via Vittorio Emanuele II il 28 dicembre 1890 da Giovanni, professore di lettere alla Scuola Enologica, ma domiciliato in Concordia sulla Secchia (MO), e da Linda Battaglia. Il padre Giovanni Longhi, nel periodo del suo soggiorno ad Alba, fu un attivo esponente del Partito Socialista ed, assieme a Giovanni Rocca e Vincenzo Ravinale, diede vita al primo gruppo politico albese, ma scarso peso avevano nel contesto sociale della città, all'epoca grosso borgo agricolo con una scarsa industrializzazione, ove l'unica azienda di un qualche interesse era la Filanda che impiegava quasi esclusivamente manodopera femminile. Tant'è vero che il Procuratore del Re, nella sua prolusione all'inaugurazione dell'anno giudiziario 1891, poté tranquillizzare tutti i benpensanti liberali e borghesi, affermando che "nel circondario di Alba, per fortuna, non allineano dottrine socialiste che, con pretesto di una uguaglianza impossibile, muovono guerra sleale allo Stato ed alle famiglie.
Nel gennaio del 1894 si diffuse la notizia che il 31 del mese i socialisti avrebbero tenuto un comizio in città e promosso agitazioni, ma, nonostante tutte le precauzioni prese dalle autorità, i socialisti non si videro. Tuttavia il 23 febbraio vennero citati in giudizio Ravinale e Longhi, per aver diffuso, senza la prescritta autorizzazione, l'opuscolo Sorgente. Vennero difesi da ben 4 avvocati di fede socialista, fra cui Sebastiano Sineo di Alba.
Roberto Longhi si laureò in lettere all'Università di Torino con una tesi sul Caravaggio nel 1911. Il padre morì ad Alba il 29 marzo 1913 e successivamente Roberto Longhi trasferì la sua residenza a Gorlago (BG) il 3 maggio 1915.
Roberto Longhi dal 1935 fu professore di Storia dell'Arte all'Università di Bologna, per trasferirsi poi a Roma al Ministero della Cultura, negli anni Quaranta; dal 1950 fu titolare della stessa cattedra all'Università di Firenze. Il 31 gennaio del 1924 aveva sposato a Roma Lucia Lopresti, più conosciuta come Anna Banti, scrittrice e critica letteraria.
Roberto Longhi morì a Firenze il 3 giugno 1970. Roberto Longhi è considerato uno dei maggiori storici e critici dell'arte del Novecento. Collaborò alle più prestigiose riviste letterarie ed artistiche come La voce, L'artye, Vita artistica, da lui diretta con Emilio Cecchi, e a Paragone, da lui fondata nel 1950.
L'azione critica di Longhi innovò nei metodi positivistici in opposizione al sostanziale crocianesimo della critica d'arte a lui contemporanea. Longhi ha esplorato intere zone pittoriche dell'arte italiana, spesso trascurate dalla critica, ricostruendone la fisionomia, con acuto recupero filologico, soprattutto nei riguardi della pittura di Piero della Francesca e la sua scuola, la pittura veneziana, lombarda, ferrarese e bolognese. Importantissimi furono i suoi saggi dedicati al Caravaggio ed all'ambiente caravaggesco che lo portarono ad attribuire a Mattia Preti l'opera Il concertino, conservata nella Sala Consiliare del palazzo comunale di Alba.
Longhi ha contribuito, spesso con saggi fondamentali, all'organizzazione di grandi mostre, come La pittura bolognese nel Trecento (1950), Caravaggio ed i caravaggeschi (1951), Pittori lombardi della realtà (1954) e Arte lombarda dai Visconti agli Sforza (1958).
Anche in campo artistico diede inizio ad una vera e propria scuola, che ebbe fra i suoi allievi Giuliano Briganti, Mina Gregori, Carlo Volpe e Federico Zeri, scuola che si contrappose, anche vivacemente, a quella fondata da Lionello Venturi; le concezioni artistiche delle due scuole tra loro in antitesi e contrasto, animarono la vita culturale ed artistica italiana per oltre 50 anni.
Così Federico Zeri, nella sua opera Orto aperto del 1990, ricorda il suo primo incontro con Roberto Longhi: «La prima cosa che conobbi di Roberto Longhi fu una copia dell'Officina Ferrarese che Antonino Santangelo si teneva stretta al fianco quando gli fui presentato, nel 1943, in una piccola galleria di via Piemonte a Roma. La fisionomia di Santengelo la riconobbi subito, ero rimasto colpito dal bellissimo ritratto dipinto da Renato Guttuso, e che avevo visto in una Quadriennale qualche tempo addietro.
Mi incuriosì molto il libro che egli teneva stretto, quasi temesse di perderlo o che gli venisse rubato, sistemandolo di quando in quando sotto l'ascella col suo fare furtivo, di congiurato che teme l'arresto da un momento all'altro. Il titolo del volume, Officina Ferrarese, mi si impresse nella mente, così che qualche sera dopo lo citai, chiedendo che libro mai fosse, in casa di Antonio Pietrangeli (già sceneggiatore, ma non ancora regista) che abitava a due passi da me, in via di Villa Massimo.
Era presente, tra gli altri, Umberto Barbaro, che, udito quel titolo, fece una faccia molto strana. Io non sapevo allora che la moglie dell'editore del volume era fuggita con lui, per poi morire di parto in circostanze tragiche: e nemmeno sapevo che, per Barbaro, Roberto Longhi costituiva una sorta di nume, di faro, di vero e proprio idolo cui tutto è dovuto e tutto si perdona, perché gli Dei hanno leggi loro, dalle quali sono esclusi i comuni mortali.
Fu da Barbaro che venni iniziato al culto longhiano: mi descrisse minutamente la casa in via Fortini a Firenze, mi elencò i tipi di automobili che aveva posseduto, il colore delle sue giacche, il carattere dei vari allievi. Entrai dunque in una sorta di iniziazione, né valsero a rendermi prudente le parole di Pietro Toesca, il mio professore universitario col quale dovevo laurearmi, che (quasi parlasse della maga Circe) mi avvertì di stare molto, molto attento nei confronti del Longhi.
Venne l'8 settembre, i lunghi mesi chiuso in casa, l'arresto, la salvezza in extremis (ancora mi meraviglio di non essere finito alle Fosse Ardeatine), lo sconvolgimento totale dell'esistenza; poi l'arrivo degli Alleati, il cercare un lavoro, la laurea infine, ma una grande incertezza per il futuro.
Barbaro lo rivedevo spesso (anche lui abitava a pochi passi da casa mia) e fu lui a presentarmi Giuliano Briganti, che cominciai a frequentare, iniziando una delle rare amicizie che, in quasi mezzo secolo, non si sono mai incrinate.
Fu in casa Briganti, in via Giulia, che incontrai un singolare personaggio, dal quale rimasi immediatamente colpito: disse di chiamarsi Alberto Saibene, mi fece alcune domande su Caravaggio e sulla pittura del Seicento, scherzò, rise, fece giochi di parole, e, soprattutto, mi incuriosì per gli occhi nerissimi, perennemente mobili, e per il colore del viso, non scuro né abbronzato, ma simile alla sfumatura bruna che caratterizza gli zingari e certi indiani.
Era Roberto Longhi, come si rivelò alla fine dell'incontro (il vero Alberto Saibene lo conobbi più tardi, sento ancora la mancanza della sua casa ospitalissima, dei suoi inesauribili interessi di cultura, del gusto sicuro con cui mise su una bellissima collezione, di quelle vere, non basate sui nomi o su expertises).
Dire che restai affascinato da Longhi è poco, egli era uno charmeur senza pari, e la sua scintillante conversazione possedeva un merito rarissimo, quello di sollecitare l'intelligenza degli ascoltatori, di spronarli aprendo nuove prospettive, rivelandosi una sorta di mago del connoisseurship, di sottigliezza, per quei tempi, quasi prodigiosa.
Mi invitò a casa sua, a Firenze: e quando oggi, col mio passo claudicante per l'artrite, ripenso alle camminate dalla stazione fiorentina sino a via Fortini, con due valigie gonfie di centinaia di fotografie (sulle quali passavamo insieme lunghe giornate di ricerche e discussioni, cui debbo la mia ossatura di storico dell'arte e conoscitore), ebbene, posso dire soltanto che è molto triste invecchiare.
Ma Pietro Toesca, che aveva saputo dei miei incontri con Longhi, mi sollecitò a far visita a Bernard Berenson, scrivendo una lettera di presentazione. Tra Longhi e BB (come veniva chiamato il venerando e mitico personaggio di Vincigliata) correva molta ruggine, se non uno strano rapporto di odio mescolato ad un'immensa stima reciproca, di cui ignoravo le cause (poi le conobbi nei dettagli, ma questo è argomento da rimandare ad altra volta).
Quando, durante uno dei miei soggiorni in casa Longhi, dissi che avevo una presentazione per Berenson, notai, nei suoi occhi, un attimo di esitazione; poi mi disse: «Quell'uomo vive lontano da qui; ci andrai con la bicicletta di mia moglie». Fissai un appuntamento per telefono; dopo lunga attesa una voce femminile, del tipo very exclusive (seppi poi che era Nicky Mariano), mi disse che BB mi avrebbe ricevuto «tra le 16.23 e le 16.47».
E così, pedalando sulla bicicletta di Anna Banti, arrivai a I Tatti, la favolosa resistenza berensoniana. Fui introdotto in una sala, dove feci un incontro sconvolgente, il trittico del Sassetta (non dimenticherò mai i piedi del san Francesco nella tavola centrale).
Poi, alle 16.23 in punto, nel silenzio sacrale della casa, fui introdotto nello studio, dove Berenson (seduto su un'antica sedia provvista di ciambella ricoperta di azzurro velluto settecentesco) mi accolse con l'impassibile freddezza di un idolo in avorio o di un saggio tibetano.
Mi chiese dei miei studi (lavoravo sul Cinquecento a Roma), di Pietro Toesca, dei miei progetti; poi, all'improvviso, mi domandò: «Lei è ebreo?» Risposi, un po' sorpreso, di no. «Capisco», fece BB, «lei è ariano.»
Era, questa, un'osservazione velenosa (la scoperta di Auschwitz non era poi molto lontana nel 1946); ma non mi lasciai sconcertare da questa frecciata berensoniana, con cui egli si divertiva a porre in imbarazzo gli interlocutori (ne conobbi in seguito molte altre di questo tipo). «Mi spiace, Mr Berenson, ma lei sbaglia. La mia famiglia, molti secoli fa, venne in Italia dal Medio Oriente, precisamente dalla Siria.»
Fu BB a non saper cosa replicare; e ricominciammo la conversazione, interrotta esattamente alle 16.47: nello stesso istante Berenson si alzò congedandosi da me, la porta dello studio venne aperta dal cameriere che mi riaccompagnò alla porta di casa, e io, pedalando, tornai dai Longhi, che mi tempestarono di domande sulla visita, sulle persone che avevo incontrato, sui quadri che avevo visto, e soprattutto su Bernard Berenson che (come capii subito) esercitava sui Longhi un misto di ammirazione, di repulsione, di rimpianto, di ridicolo e di sconfinata stima.
A cena, Longhi si mise a fare l'imitazione di BB, con lo straordinario talento di attore che egli possedeva: «Ca-ro a-mi-co», diceva con la vocina che avevo udito poche ore prima, «pre-fe-ri-sce Ta-ddeo da Po-ggi-bonsi o l'A-mi-co di Ta-ddeo»? Mi venne da replicare che «all'ombra dei Sassetta, e presso il BB, assistito da Nicky - è forse il tedio - della vita men duro».
Mi fu comunque molto difficile mantenere buoni rapporti contemporaneamente con l'uno e con l'altro; e pur preferendo Longhi continuai a vedere BB, sino a che persone ignobili misero male tra me e l'ambiente dei Tatti. Più tardi, nel 1957, fu BB a mandarmi a chiamare; allora aveva fatto pace con Roberto Longhi, e partecipai al pranzo che suggellava la ricomposta amicizia (ahimè, sulle ceneri ancora calde di un grande personaggio cui ambedue dovevano molto).
Federico Zeri, Orto aperto, pagg. 244-248.

Bibliografia

Albesi nella toponomastica

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