Corso Unità d'Italia
DATA DI INTITOLAZIONE
3 febbraio 2011
UBICAZIONE
Alba, nella frazione Biglini: da corso Bra, intersezione con la tangenziale di Alba, al confine comunale
Con la definizione di “Unità d’Italia” si intende la legge approvata dal Parlamento subalpino di Torino il 14 marzo 1861 e promulgata dal re Vittorio Emanuele II il 17 marzo 1861.
All’apertura della nuova legislatura, il 18 febbraio 1861, con il discorso della corona interrotto da grida di «Viva il re d’Italia», non vi furono comunque segni della tensione che in seguito avrebbe profondamente contrapposto l’opposizione di sinistra alla maggioranza dei moderati. In tutti i componenti del Parlamento ormai italiano, e soprattutto in Cavour, era ben radicata l’opinione che in primo luogo fosse indispensabile conferire al nuovo Stato un inoppugnabile titolo giuridico che abilitasse il governo a vederne riconosciuta l’esistenza in sede internazionale. La costituzione ufficiale del Regno d’Italia consentiva di inserire la nuova comunità nazionale in quella europea a parità di prestigio e di obblighi e di tutelarne l’integrità contro le non dome rivendicazioni di sovrani spodestati e di monarchi costretti a rinunciare a territori già assoggettati al loro dominio. Il riconoscimento del Regno da parte dei singoli Stati in Europa ed oltremare avrebbe inoltre assunto l’aspetto di una scelta tra i princìpi della nazionalità e della libertà contro quelli della conservazione e della reazione. L’immediata presentazione al Senato, da parte del presidente del Consiglio, il 21 febbraio 1861, del disegno di legge in virtù del quale Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia, testimoniò chiaramente la rilevanza da attribuirsi alla sollecita approvazione dell’Italia unita.
Solo la presentazione del disegno di legge prima al Senato che non alla Camera poteva accelerarne il procedimento di esame e di approvazione, perché alla Camera, secondo gli usi allora seguiti, prima ancora dell’elezione dell’ufficio definitivo di presidenza, era d’obbligo esaurire, nelle sedute iniziali di ciascuna legislatura, tutte le verifiche di poteri per accertare se le elezioni fatte nei singoli collegi fossero state regolari e non inficiate da cause di invalidità. Ecco perché, non potendo in quelle sedute la Camera iscrivere altri argomenti all’ordine del giorno per non essere ancora neppure legittimamente costituita, il disegno di legge fu presentato al Senato, i cui membri, essendo di nomina regia, erano soggetti alla verifica dei poteri a mano a mano che il sovrano procedeva alla nomina dei nuovi senatori.
La precedenza accordata al Senato non era quindi stata dettata a Cavour dall’intenzione di ferire la sensibilità dei suoi colleghi deputati, ma dalla volontà ferma di far varare dal nuovo Parlamento quale primo provvedimento legislativo quello relativo all’assunzione del nuovo titolo da parte di Vittorio Emanuele. Fu, d’altra parte, proprio Cavour a fugare il dubbio su una sua presunta scorrettezza nei riguardi della Camera di estrazione elettiva per privilegiare quella di nomina regia su una questione di notevole esaltazione nazionale: il 22 febbraio 1861, cioè un giorno dopo la presentazione del disegno di legge al Senato, egli acconsentì infatti, nella sua qualità di deputato del primo collegio di Torino, a presentare alla Camera una petizione firmata da 1350 cittadini torinesi «per invitare la Camera – come si legge nel resoconto della seduta del 13 marzo ed alla vigilia della seduta del giorno successivo, in cui fu approvato il disegno di legge dal Senato – a voler anzitutto stabilire per legge che Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia».
L’esame del disegno di legge presentato da Cavour ebbe un iter parlamentare brevissimo, che si protrasse per soli due giorni, il 26 febbraio ed il 14 marzo, per una sola seduta in ciascuna delle due Camere. L’approvazione era scontata, ma non mancarono isolate voci dissenzienti che espressero perplessità di fondo tanto sulla natura del nuovo titolo reale quanto sul procedimento scelto per il suo conferimento. Un decreto reale, accettandola, avrebbe fatto diventare legge effettiva l’unanime proposta dei poteri parlamentari. Con l’approvazione da parte della Camera il 14 marzo, all’unanimità dei 292 presenti su 443 componenti dell’assemblea, l’unità era raggiunta. Con la pubblicazione della legge il 17 marzo, «il titolo di re d’Italia – come è scritto nella relazione presentata da Matteucci ai suoi colleghi senatori – offre alle grandi potenze, in mezzo alle quali il Regno d’Italia prende posto, degna occasione per accettare il risorgimento politico di un popolo che ha tanto contribuito alla civiltà universale». Accettazione tutt’altro che scontata in diversi Paesi, fossero essi a regime costituzionale o assolutista, come fu anche il convincimento dello stesso Cavour, quando, nel suo intervento del 14 marzo ebbe a richiamare l’attenzione dei deputati sulla fallace illusione di vedere accolto in tutto il mondo «con favore ed applausi» il nuovo Stato nazionale e sugli ostacoli che al riconoscimento internazionale venivano frapposti e di cui, insisteva il presidente del Consiglio, già erano state date evidenti testimonianze anche «nelle assemblee più illustri d’Europa».
A tutela di quanto stabilito nel Congresso di Vienna il governo austriaco, subito dopo la presentazione del disegno di legge al Senato, si affrettò a trasmettere il 28 febbraio un dispaccio ai propri ambasciatori a Parigi ed a Londra, seguito il 3 marzo da una corrispondente lettera circolare a tutte le missioni imperiali, per richiamare l’attenzione di tutti i governi sul fatto che l’assunzione del nuovo titolo, da parte del re di Sardegna, veniva a costituire un’infrazione a quanto stabilito in un protocollo del Congresso di Aquisgrana del 1818, cioè l’obbligo per tutti i sovrani di non poter assumere un nuovo titolo senza il consenso delle cinque grandi potenze (Austria, Francia, Gran Bretagna, Prussia, Russia), in conformità alla decisione presa proprio ad Aquisgrana di non accogliere la richiesta del principe elettore d’Assia che avrebbe voluto assumere il titolo di re. Cavour era ben consapevole della necessità di annullare le manovre diplomatiche della corte di Vienna presso i governi stranieri e trasmise subito, lo stesso giorno della pubblicazione della legge, istruzioni alle missioni diplomatiche sarde per l’immediata notifica del nuovo titolo ai singoli governi.
Alla sua morte, il 6 giugno 1861, solo quattro governi avevano già proceduto al riconoscimento del nuovo regno: il 30 marzo la Svizzera e l’Inghilterra, l’11 aprile la Grecia ed il 13 aprile gli Stati Uniti. Dopo la morte di Cavour il nuovo regno ottenne il riconoscimento della Francia (15 giugno) dietro l’impegno dell’Italia di impedire ogni tentativo contro l’integrità del potere temporale del papa; del Portogallo (27 giugno), dei Regni uniti di Svezia e di Norvegia (8 luglio), dell’Impero ottomano (9 luglio), della Danimarca (fine luglio), dell'Olanda (16 agosto), del Belgio (7 novembre). Alla caduta del ministero Ricasoli, ad un anno di distanza circa dalla costituzione formale del nuovo regno, tra le potenze firmatarie dell’Atto generale di Vienna del 1815, quattro su otto – Inghilterra, Francia, Portogallo e Svezia – avevano accordato il riconoscimento, mentre altrettante ancora indugiavano, tra cui due – Austria e Spagna – assolutamente decise a non concederlo, per ragioni dinastiche ambedue e soprattutto con la speranza, la prima, di poter assistere tra non poco allo sfaldamento della nuova formazione statale, ritenuta scarsamente vitale perché minacciata dalle dure divergenze su un indirizzo politico unitario sulle questioni di Roma e Venezia e dal brigantaggio nel Mezzogiorno. La Russia e la Prussia accordarono il riconoscimento nel luglio 1862, sotto il governo Rattazzi, ed ambedue posero delle condizioni: l’impero zarista, la chiusura della scuola militare polacca di Cuneo; la Prussia, l’assicurazione che, nel caso in cui la monarchia degli Hohenzollern o la Confederazione germanica fossero coinvolte in una guerra, il regno d’Italia non ne avrebbe approfittato per impadronirsi del Veneto. L’ultima delle potenze firmatarie dell’Atto generale di Vienna che riconobbe il Regno d’Italia – esclusa ovviamente l’Austria, che vi si adattò solo dopo la guerra perduta del 1866 – fu la Spagna nel luglio 1865.
Dopo aver votato la legge che trasferiva il governo e la capitale da Torino a Firenze, la Camera dei deputati venne sciolta e furono fissate le elezioni per la IX legislatura, la prima dopo la proclamazione del nuovo Regno, per il 22 ottobre 1865.
Ridisegnati i territori delle province nel 1859, anche i collegi elettorali vennero accorpati e scesero a dodici nella provincia di Cuneo; Alba aveva inglobato il collegio di Monforte-Diano, Bra quello di Canale, Cortemilia veniva a far parte del collegio di Mondovì.