Il Tartufo Bianco d'Alba
Dal crepuscolo a notte fonda o prima dell’alba, quando le nebbie dell’autunno confondono i contorni delle colline di Langa e Roero, quando il freddo diventa via via più pungente, uomini e cani percorrono per forre e bricchi itinerari gelosamente conservati nella memoria, quasi un pellegrinaggio tracciato dall’esperienza, tra pioppi e tigli e lungo pendii di querce e salici: è la ricerca del tartufo bianco d’Alba che, da settembre a gennaio scatena cani e trifolao in una gara avvincente e appassionante di cui si favoleggerà nelle osterie per tutto l’inverno.
Così da sempre, da quando un uomo, in tempi remoti sulle colline di Langa, casualmente, in un bosco di querce, ha visto quasi affiorare un frutto sconosciuto e apprezzandone il profumo, lo ha addentato trovandolo gradevole; gli venne il desiderio di trovarne degli altri ma l’impresa non esemplare in mostra per la vendita si presentò così facile.
Un giorno, in cui era accompagnato da un cane, si ripeté il ritrovamento; anche il cane annusò quel cibo per lui sconosciuto, lo azzannò, ne provò soddisfazione e si mise a cercarne altro. Era nata la ricerca del tartufo.
Il cane addestrato, con il suo muso quasi piantato per terra, scorrazza e annusa tra i cespugli, ritorna sulle sue orme, annusa ancora: poi, d’improvviso, come folgorato da un istinto che si ridesta impetuoso, comincia a raspare e a guaire; accorre il trifolao e con la zappetta di ferro, il sapin lungo e ricurvo, allarga con delicatezza la piccola buca appena segnata e con mani esperte estrae il tartufo e ne fiuta, appagato, l’intenso e persistente profumo.
La notte gli è amica, perché lo mette al riparo da occhi indiscreti e di notte i profumi si avvertono meglio ed è più semplice anche per i cani.
Poi, i trifolao professionisti segnano su un taccuino luogo, epoca, luna e caratteristiche del tartufo, per essere pronti l’anno successivo ad un nuovo appuntamento. Protagonista della ricerca del tartufo è il cane, prezioso quanto insostituibile. I cani da tartufo non sono quelli di razza che hanno, nel sangue blu, mille antichità di blasoni e spesso di mollezze, ma sono cani da pagliaio, dalle genealogie incerte e confuse, frutto di centinaia di incroci che hanno nel naso l’abitudine di fiutarsi attorno e cercare un po’ di cibo.
Cani da tartufo si nasce, la scuola aiuta e disciplina gli sforzi. I corsi, che cominciano quando finisce l’inverno, durano solo pochi mesi ma sono severi e soprattutto basati sulla fame.
La più celebre delle scuole per cani da tartufo è stata quella di Roddi, promossa negli anni trenta ad università.
Era stata fondata all’inizio del secolo scorso da Antonio Monchiero, detto Barot, e quindi Barot I, sotto le mura del glorioso castello ricco di storia e di nobile architettura. Fece in tempo a veder nascere la Fiera del Tartufo, a conoscere Giacomo Morra, a partecipare egli stesso trifolao alle prime edizioni accompagnando il figlio Battista, detto Barot II, che succederà al padre nel rettorato dell’università. La loro partecipazione avveniva anche con carri allegorici ispirati all’università con un ciabot, paglia alla rinfusa, alcuni cani e sul ciabot la scritta “Università dei cani”– Prof. Barot.
Barot II, nel 1953, con Giacomo Morra rinnovò la scuola, istituì un campo sperimentale di ricerca del tartufo bianco d’Alba per giornalisti e ospiti di riguardo dell’Hotel Savona.
In quegli anni, una visita all’Università per cani di Roddi con ricerca del tartufo entrò nei programmi della Fiera.
Nel 1963, Antonio Monchiero, Barot III, nuovo rettore dell’Università, mandò un tartufo di 600 grammi alla Fiera di Liegi.
Alla fine degli anni settanta l’Università ebbe un momentaneo appannamento e Barot III interruppe l’attività ma, nel marzo 1982, il sindaco di Roddi, Elsa Malferrari, avvocato, si propose di riaprire la scuola e ripristinare campi sperimentali di tartuficoltura e di ricerca di tartufi, magari con una cooperativa di ricercatori e allevatori. Giovanni Monchiero, Barot IV, si lasciò convincere, riaprì l’Università, partecipò alle esposizioni della Fiera diventata Nazionale del tartufo e venne premiato nel 1990.
La scuola di Roddi era apprezzatissima; i contadini delle Langhe e del Roero portavano cuccioli grandicelli da pagliaio e Barot li teneva a pensione, li accudiva e li istruiva. L’esame di laurea avveniva con la ricerca pratica, prima simulata, poi effettiva, per ogni tartufo trovato il cane riceveva un tozzo di pane.
Terminati brillantemente gli studi, il padrone poteva tornare a riprendersi il cane e la sua crescita professionale, la capacità, il diventare campione dipendeva dalla predisposizione, dalla buona volontà del trifolao, dalla sua attitudine.
A forza di tozzi di pane non si ingrassa, ma il cane impara che i tartufi vanno al padrone. Con il cane il trifolao non usa la frusta e neppure le botte, che evita soprattutto quando lo sta educando.
Se il cane è abituato ad essere picchiato, appena avverte il tartufo scappa come di fronte ad un nemico, perché quel profumo gli ricorda le percosse e invece deve associarlo al cibo: un tempo era il tozzo di pane, ma oggi sono anche speciali biscotti integrali, concessi come ricompensa della ricerca.
Giacomo Morra, albergatore e ristoratore al «Savona» di Alba, è stato il pioniere dell’avventura del tartufo, il re indiscusso, quasi a diventar egli stesso simbolo del tartufo. Per primo ne comprese le enormi possibilità turistiche ed enogastronomiche e con felice intuizione diede ad esso un nome ed un cognome con accenni di antica nobiltà: «Tartufo d’Alba», iniziando così, sin dagli anni Venti una storia di radiosi successi.